Per arrivare ad affrontare il tema proposto, ritengo utile partire da un’altra domanda, forse anche più impegnativa: a quali condizioni può, nell’ambito dell’euro, sopravvivere una prospettiva politica “di sinistra”? È una domanda che non è poi molto lontana da un’altra: a quali condizioni può, nel contesto dell’euro, sopravvivere il modello sociale europeo? Ovvero: quanto l’euro è effettivamente una condizione per la realizzazione in Europa di condizioni di benessere e sicurezza, pace e cooperazione che rappresentano l’obiettivo del progetto europeo in una prospettiva progressista, e quanto invece la moneta unica rischia di essere ormai un ostacolo al perseguimento di tali obiettivi? La domanda può essere infine declinata con riferimento al recente dibattito sulla diseguaglianza sollecitato dal libro di Piketty: è il mantenimento dell’euro compatibile con l’utilizzo della politica economica al fine di garantire quell’equilibrio tra capitale e lavoro che il capitalismo non è in grado di assicurare in modo autonomo? O non è invece la moneta unica funzionale a un sistema in cui la bilancia pende tutta dalla parte dei creditori e del capitale finanziario rispetto al lavoro e alle istituzioni del welfare?

Sappiamo che un’uscita dalla moneta unica sarebbe estremamente rischiosa, e comporterebbe rilevanti costi economici e politici anche quando realizzata come superamento coordinato dell’unione monetaria (ammesso che tale coordinamento sia possibile). Tuttavia, se raggiungessimo la conclusione che la permanenza nella moneta unica non porta a benefici durevoli ma anzi è un problema, ci troveremmo in una posizione poco difendibile politicamente: affermare che la moneta unica ha costi superiori ai benefici ma ce la dobbiamo comunque tenere perché è costoso organizzare l’uscita è chiaramente un argomento debole. Equivale a mettersi in condizione di passiva attesa che i processi economici e politici facciano il loro corso. Il contrario di quello che ci si attende dalla sinistra politica.

Dove siamo e come ci siamo arrivati

Non serve ricostruire nel dettaglio i passaggi che hanno portato alla scelta della moneta unica. Questa è l’esito di un percorso di ricerca di una risposta adeguata alle difficoltà di ristabilire un ordine monetario dopo la fine del sistema di cambi fissi ma aggiustabili di Bretton Woods, in un contesto di movimenti di capitale liberalizzati. La libertà di movimento dei capitali è notoriamente incompatibile con l’autonomia della politica monetaria in un sistema di cambi fissi. Essa rappresenta tuttavia un vincolo anche in un contesto di cambi flessibili in presenza di un debito pubblico elevato, visto che il rischio di cambio si riflette sugli interessi. La scelta a suo tempo compiuta dall’Italia di promuovere la moneta unica può trovare giustificazioni nel contesto delle urgenze dei primi anni ’90 e in vista di vantaggi attesi percepiti allora come prioritari, quali in primo luogo la riduzione dei tassi di interesse.

A mio avviso in questa scelta hanno giocato tuttavia altri fattori più discutibili: in primo luogo la sottovalutazione del fatto, che pure era stato puntualmente evidenziato dagli economisti, che l’Europa non rispettava le condizioni che individuano un’area valutaria ottimale. In secondo luogo la convinzione, alimentata dal clima culturale di quegli anni, che il ruolo di stabilizzazione della politica economica fosse nel migliore dei casi inutile, nel peggiore dannoso e fonte esso stesso di instabilità. Una convinzione di cui troviamo una traccia evidente nell’impianto di Maastricht. Infine, credo che un peso importante abbia avuto la sfiducia nella capacità della politica – direi più precisamente nella politica sostenuta dal consenso democratico – di realizzare la necessaria modernizzazione del sistema; sfiducia che ha alimentato la convinzione che per rilanciare e modernizzare l’economia italiana occorresse un “vincolo esterno” in grado di disciplinare una politica inconcludente e un elettorato inaffidabile.

Non occorre nemmeno, in questa sede, ripetere quanto, con altri economisti, abbiamo detto e scritto in numerosi articoli e documenti fin da prima dell’acuirsi della crisi nel 2011. Ovvero che la crisi che stiamo vivendo non è la somma di tante crisi nazionali, bensì una crisi dell’eurozona nel suo insieme, dovuta certamente a scelte sbagliate compiute da chi ha diretto la politica economica europea dal 2009 in poi, ma riconducibile in ultima analisi a un elemento di fondo quale è l’assetto istituzionale della moneta unica. Chi scrive ha anche denunciato più volte1 come la strada su cui ci siamo incamminati rischi di compromettere le basi del modello sociale europeo, cuore dell’identità del nostro continente che sta alla base del progetto di integrazione, e metta in discussione lo stesso esercizio della democrazia.

Se è chiaro il potenziale conflitto tra assetto della moneta unica da una parte e praticabilità del modello sociale ed esercizio della democrazia dall’altra, la percezione dell’irreversibilità dell’adesione all’euro e la sua identificazione con il progetto di integrazione europea ci rendono quasi impossibile immaginare che sia possibile smantellarla, “rimettere il dentifricio nel tubetto”. La grande maggioranza di economisti e politici di sinistra ha visto e vede tuttora un’unica strada percorribile: quella di andare avanti con il processo di integrazione, recuperando a livello sovranazionale la sovranità perduta dagli stati nazione aderenti all’unione monetaria.

Di fronte all’evidente assenza di passi avanti, ogni iniziativa è stata condizionata dall’attesa dell’evento che potesse segnare il giro di volta, via via identificato con un possibile cambio di governo in Germania, una vittoria dei partiti socialisti nelle elezioni europee, un’iniziativa politica decisiva durante la presidenza italiana, e così via. Speranze sistematicamente deluse, visto che oggi le condizioni per un’uscita dalla crisi attraverso il rilancio dell’Europa politica non ci sembrano più vicine, se non in misura del tutto marginale. Al punto in cui siamo una presa d’atto più realistica dello stallo in cui ci troviamo è dunque necessaria.

Ma vorrei procedere con ordine, e vorrei farlo attraverso quattro “proposizioni” e una conclusione.

Prima proposizione. Il perdurare della crisi non è un mero accidente dovuto alle scelte di politica economica, ma è iscritto nell’architettura della moneta unica.

È ormai acquisito che l’assenza di una ripresa dalla crisi sia dovuta a una carenza di domanda, effetto della risposta sbagliata rappresentata dalle politiche di austerità. Occorre tuttavia capire le ragioni fondamentali per cui è mancata un’adeguata risposta di politica economica, al di là della protervia ideologica di chi a Bruxelles o a Berlino detta le regole del gioco. Le politiche di austerità sono infatti in primo luogo il riflesso di una diversità di interessi rispetto alla ripartizione dei costi della crisi. Una divergenza riconducibile al conflitto tra creditori e debitori, tra paesi in surplus e paesi in deficit (dove il riferimento non è ovviamente al bilancio bensì all’equilibrio esterno).

La faglia che divide l’Europa tra paesi in surplus e in deficit evidenzia anche il fondamentale squilibrio di competitività che affligge le economie del cosiddetto “centro” e della “periferia”. Tale squilibrio è stato favorito dalla condivisione della moneta, e quindi dall’impossibilità di usare la “valvola” del riallineamento del cambio, da parte di economie con una diversa capacità di controllare la crescita di salari e prezzi. Nessuno nega che l’industria tedesca abbia saputo realizzare efficaci politiche di investimento e delocalizzazione aumentando la produttività più di quanto sia riuscita a fare ad esempio l’Italia. Tuttavia, un ruolo determinante nel garantire alla Germania il suo vantaggio competitivo hanno avuto le politiche di compressione delle retribuzioni, un vero e proprio dumping salariale, realizzate nei primi anni dell’euro. In un contesto di cambi fissi l’effetto è stato equivalente a quello di una svalutazione competitiva, per cui la Germania è riuscita di fatto, unica nell’eurozona, a controllare il proprio tasso di cambio reale e trarre vantaggio della domanda nei paesi periferici, finanziata a debito dai capitali che affluivano dalla stessa Germania.

Per la verità, niente di veramente nuovo: la strategia di crescita tedesca basata sull’accumulo di surplus attraverso il controllo dei salari e dell’inflazione è una strategia di lunga data, iscritta nel modello produttivo e nella cultura economica tedesca. L’euro ha solo favorito tale strategia, negando ai partner commerciali della Germania la possibilità di utilizzare il canale, del tutto naturale ancorché spesso demonizzato, del riallineamento del cambio attraverso la svalutazione. O, se si preferisce, consentendo alla Germania di mantenere un surplus di partite correnti senza pagare pegno con la rivalutazione, come era accaduto regolarmente nei decenni pre-euro. Lungi dal creare la sperata convergenza, l’euro ha semmai accentuato gli squilibri, e continuerà a farlo in assenza di una radicale revisione del suo funzionamento.

Senza correggere tale squilibrio le difficoltà delle economie periferiche sono destinate a perdurare e, nel contesto segnato dai vincoli di Maastricht, dal fiscal compact e dai vincoli imposti alla Bce il recupero di competitività necessario a correggere lo squilibrio con la Germania, stimato nell’ordine del 20% o più, è affidato alla deflazione salariale nei paesi periferici, da realizzarsi attraverso un’ulteriore flessibilizzazione del mercato del lavoro. Questo è il dato di fondo ineludibile, che va dunque ben al di là della questione del limite del 3% al deficit di bilancio.

Seconda proposizione. Nel quadro descritto, non c’è spazio per politiche di sinistra

In presenza di un contesto, quello della moneta unica, che scarica sul mercato del lavoro la pressione derivante dagli squilibri macroeconomici, determinando un incentivo dei paesi membri a concorrere al ribasso sui salari per recuperare competitività; un contesto in cui la dimensione del debito ci impedisce, anche in presenza di vincoli di bilancio meno stringenti, di perseguire autonome politiche espansive senza l’ombrello protettivo della banca centrale, restano alternative percorribili rispetto all’accettazione delle politiche deflazionistiche? Resta alla sinistra un ruolo diverso da quello puramente “conservativo” di difesa del welfare e dei diritti laddove è possibile? Un ruolo diverso da quello di sinistra di opposizione, che va in piazza ma alla fine ha poche armi per opporsi alla dura aritmetica della competitività.

Qual è lo spazio reale per un governo di sinistra entro i vincoli descritti? Essa potrà al più elargire qualcosa a chi sta peggio, ma dovrà rassegnarsi a un welfare sempre meno universalistico e al declino di scuola e università e alla crescita delle diseguaglianze. Queste sono infatti destinate ad aumentare per effetto delle riforme del mercato del lavoro e più in generale dei rapporti di forza nell’ambito dell’eurozona, che vedono i costi di aggiustamento interamente addossati ai debitori e la prevalenza delle ragioni dei creditori, laddove debitore è il lavoro che paga le imposte, mentre creditore è il capitale.

Tutto ciò mentre le riforme strutturali di cui avremmo veramente bisogno per ripartire, ovvero la riqualificazione del nostro apparato pubblico, la riforma degli ammortizzatori sociali, gli investimenti pubblici, sono rimandate per assenza di risorse, mentre assistiamo inermi alla progressiva desertificazione del nostro apparato produttivo.

A livello europeo una tale sinistra potrà operare per erodere spazi di flessibilità nelle politiche di bilancio, ma in mancanza di una revisione più profonda del sistema della moneta unica questo è soltanto un modo per acquistare tempo. Piccoli successi da non sottovalutare, in quanto pongono un argine allo smantellamento del sistema di welfare, ma che non possono in nessun modo considerarsi risolutivi. A meno che non consideriamo seriamente un successo la possibilità di ridurre il deficit dal 3,0% al 2,6% invece che 2,2%.

E se anche la deroga al fiscal compact fosse più ampia, siamo sicuri che un’espansione fiscale in un paese solo possa avere gli effetti sperati, e non rischi invece, compromettendo l’equilibrio esterno, di portarci in una situazione ancora più difficile?

Terza proposizione. L’unione fiscale e politica non è necessariamente auspicabile.

In astratto possiamo pensare che un altro euro sia possibile. Le condizioni minime per uscire dall’impasse sono state più volte enunciate. Non mancano certo appelli e proposte elaborate da gruppi di economisti e think tank che hanno ben chiare le condizioni di funzionamento di un’unione monetaria.

Al di là delle differenze quanto ad ambizione e profondità dei cambiamenti richiesti sul piano istituzionale, le proposte più ambiziose contemplano forme di coordinamento della politica economica, meccanismi di mutualizzazione del debito (diretto o indiretto attraverso l’unione bancaria) e di trasferimento fiscale tra paesi. E prevedono un parallelo rafforzamento delle istituzioni rappresentative. È ormai accettata la tesi che l’euro sia quanto meno una costruzione zoppa: un’unione monetaria senza un’unione fiscale. Il corollario è che la via di uscita sia il completamento della costruzione, il rilancio del progetto europeo creando un’unione fiscale, che richiede a sua volta un’unione politica.

Da questa prospettiva, la tentazione è quella di guardare con favore a qualsiasi movimento – anche parziale – in questa direzione. Credo che proprio su questo occorra fare molta attenzione, perché unione politica può significare molte cose. Vale la pena di ricordare la proposta formulata dal ministro delle finanze tedesco Wolfgang Schäuble insieme a Karl Lamers sul Financial Times del 13 agosto 2014:

«Consideriamo due proposte. Perché non prevedere un commissario europeo al bilancio con il potere di respingere le leggi di bilancio nazionali se non si conformano alle regole concordate? Siamo anche favorevoli ad un “parlamento dell’eurozona” composto da membri dei parlamenti nazionali che rafforzi la legittimazione democratica delle decisioni relativa ai paesi aderenti alla moneta unica»

Una posizione definita federalismo dell’austerità, dalla quale non si discostano poi tanto altre proposte quali il piano di redenzione del debito del consiglio tedesco degli esperti o quello degli economisti del Glienicker Gruppe2. Il tratto comune a queste proposte di rafforzamento dell’integrazione politica è la stringente condizionalità, per cui lo scambio è tra alleggerimento (limitato) dell’onere del debito in cambio di un rafforzamento dei vincoli previsti dal fiscal compact. Allentamento della pressione fiscale contro riforme strutturali. Ovvero: l’istituzionalizzazione del potere di ricatto esercitato in questi anni verso i paesi della periferia europea.

Quarta proposizione. Ciò che sarebbe auspicabile non appare possibile dati gli interessi in campo e i rapporti di forza

Tutt’altra strategia sarebbe necessaria per fare dell’eurozona un’area economica favorevole alla crescita.

Occorrerebbe coordinare le politiche macroeconomiche in senso espansivo, alimentando la domanda interna nell’area. A questo scopo i paesi più forti, in primo luogo la Germania, dovrebbero assumere un ruolo di traino, cioè mettere in atto politiche di segno contrario a quelle adottate nel primo decennio dell’euro in cui era la periferia europea che, indebitandosi, manteneva alta la domanda per i beni tedeschi. Ma questo richiederebbe un cambiamento nel modello economico del paese leader. Un cambiamento che purtroppo dobbiamo ritenere del tutto irrealistico, visto che sulla strategia di creazione di surplus commerciali la Germania ha basato il suo sviluppo fin dal dopoguerra, vista la cultura improntata all’ordoliberismo e vista la convinzione radicata dei tedeschi che la crisi sia un problema nostro e non loro.

In questa resistenza a modificare un modello che garantisce alla Germania il permanere nella condizione del paese creditore più che nella spesso citata atavica avversione all’inflazione va individuata la ragione della resistenza tedesca a consentire azioni più decisive della Banca centrale europea.

L’assetto dell’eurozona e la linea di austerity, istituzionalizzata nelle attuali regole europee, lungi dal mettere in discussione tale modello, puntano a estenderlo all’intera eurozona, cadendo in una sorta di “fallacia di composizione”, visto che non è possibile un surplus contemporaneo di tutti i paesi senza che vi sia qualcuno nel mondo disposto ad assorbire tale surplus.

Le proposte di riforma più ambiziose dell’eurozona, chiedendo meccanismi di penalizzazione per i paesi in surplus e la creazione di una capacità fiscale a a livello europeo che rilanci gli investimenti, vanno nella direzione giusta. Il dubbio è se tali proposte possano ottenere il consenso politico necessario. Si tratterebbe di dire ai tedeschi: siete corresponsabili della situazione, il vostro modello economico è almeno altrettanto disfunzionale per la moneta unica quanto quello delle “cicale” meridionali. Quante sono probabilità che ci ascoltino?

Per la stessa ragione, ho poca speranza che un rafforzamento dei meccanismi rappresentativi possa fare realmente la differenza. Perché mai gli elettori dei paesi dell’area tedesca dovrebbero voler cambiare un modello che fino a ora ha portato indubbi vantaggi? Un modello che hanno mostrato di sostenere appoggiando la piattaforma della Merkel? Le stesse forze progressiste di quei paesi hanno chiarito che i loro elettori non sono disposti ad accollarsi i costi di aggiustamento, costi percepiti come il risultato della nostra scarsa disciplina. Anche qualora si ponesse un rimedio al deficit istituzionale e al deficit di coordinamento, questo avverrebbe nel segno di ben precisi rapporti di forza. Gli stessi rapporti di forza che hanno determinato l’architettura attuale si riproporrebbero. Rimproveriamo alla Germania di aver ottenuto che la Bce si conformasse al modello della Bundesbank. Cosa ci fa pensare che qualcosa di analogo non accadrebbe anche con le forme dell’unione politica e dell’unione fiscale?

Se abbandoniamo dunque il terreno della speranza e ragioniamo tenendo conto degli attuali orientamenti e degli interessi nazionali, ci rendiamo conto che l’unione politica cui possiamo ragionevolmente aspirare non si avvicina nemmeno a quelle condizioni minime che potrebbero garantire la sostenibilità a lungo termine della moneta unica. L’esempio degli Stati Uniti, caso di successo di unione monetaria, è solo una conferma di questa distanza.

Conclusione. Può l’euro sopravvivere?

Eccoci dunque alla domanda di partenza. In assenza delle condizioni descritte, può l’euro sopravvivere? O è destinato inesorabilmente a disintegrarsi? E in caso affermativo, si tratta di un esito che dobbiamo ritenere imminente?

C’è ampio consenso sul fatto che, sulla linea dell’austerità deflattiva, il crack dell’euro sia una possibilità concreta. I costi sociali di una situazione protratta di deflazione non sono politicamente sostenibili e i movimenti populisti ostili all’euro guadagnano progressivamente terreno ovunque in Europa. D’altra parte, una turbolenza più forte delle altre potrebbe innescare in qualsiasi momento una nuova crisi di fiducia sulla sostenibilità del debito, e la Bce potrebbe non essere in condizioni di intervenire con la forza necessaria.

Non mancano d’altra parte argomenti a supporto della convinzione che l’euro possa sopravvivere ancora a lungo. Così sarebbe se ci convincessimo (e fossimo in grado di convincere una maggioranza degli elettori) che non c’è alternativa. Di fronte alla capacità di sopportazione di paesi come la Grecia o anche Spagna e Portogallo c’è da pensare che ci siano ancora ampi spazi di deterioramento nell’occupazione e nelle condizioni sociali prima che una vittoria delle forze anti-sistema riesca ad innescare la fine dell’unione monetaria. Gli interessi al mantenimento dello status quo sono d’altra parte forti: Bce, Commissione e Germania continueranno a tenerci al di sopra del livello di galleggiamento e non ci lascerebbero fallire tanto facilmente.

Resta poi la speranza che, prima o poi, magari un attimo prima del disastro, vi sia un risveglio delle coscienze e, di fronte al baratro, le élite europee trovino la strada. Sarebbe la conferma della “dottrina Monnet”, per la quale l’Europa avanza proprio dalle crisi. Ma se anche questa fosse la prospettiva, possiamo permetterci di aspettare? E che accadrà nel frattempo all’Italia, al suo potenziale produttivo, al suo sistema di welfare, ai diritti, al livello di diseguaglianza? Cosa sarà della sinistra e delle sue aspirazioni?

Questa mia relazione lascia aperti più interrogativi di quanti ne abbia provati a risolvere. La prospettiva della fine dell’euro ci spaventa tutti. Ci appare come un salto nel buio, e ciò spinge molti economisti e politici a escludere in partenza tale opzione. A mio avviso è giunto invece il momento di ragionare esplicitamente su questa possibilità, senza banalizzarne i rischi e i costi ma nemmeno demonizzarne le conseguenze oltre misura. La linea, cui sono approdati in molti, per cui “uscire dall’euro si dovrebbe ma non si può”, è politicamente oltre che intellettualmente debole.

La sinistra ha il dovere di prendere in considerazione lo scenario del superamento dell’euro, cercando di capire a quali condizioni esso possa realizzarsi minimizzando i danni sul sistema finanziario e sul tenore di vita delle famiglie, e come tale passaggio debba essere gestito per evitare che la fine dell’euro trascini con sé anche quella dell’Unione europea. La cosa peggiore sarebbe lasciarci cogliere impreparati per aver rifiutato a priori di considerare una possibilità che potrebbe concretizzarsi indipendentemente dalla nostra volontà. E a tale riguardo il “come” è forse ancora più importante del “se”.


  1. Si veda L’Europa non è finita con Ronny Mazzocchi, Editori Internazionali Riuniti, 2012. 

  2. Per una rassegna delle proposte in campo si veda J. Galbraith e Y. Varoufakis, “Whither Europe”, OpenDemocracy