Il testo qui pubblicato è stato rivisto per ilsussidiario.net, che lo ha pubblicato in tre puntate tra agosto e settembre 2017.


La crisi

Tra gli effetti della crisi finanziaria iniziata nel 2008 c’è stato quello di evidenziare la fragilità della costruzione dell’euro. La natura di tale crisi, e in particolare la forma che essa ha assunto all’interno dell’eurozona, è stata a lungo mascherata da un’interpretazione di comodo e ideologicamente di parte, che ha puntato il dito sull’irresponsabilità fiscale dei paesi colpiti, distogliendo l’attenzione dal fatto che si trattasse invece di crisi di sistema. È abbastanza ovvio a chi tale interpretazione abbia potuto giovare: da un lato i cosiddetti paesi creditori, che hanno potuto assolvere se stessi daogni responsabilità; dall’altra a chi, ideologicamente ostile all’intervento pubblico, ha colto l’occasione per avviare un’opera di ridimensionamento del ruolo dello stato e di eliminazione delle tutele del lavoro attraverso le cosiddette “riforme strutturali”.

Che si tratti di un’interpretazione fuorviante è riconosciuto ormai ad ogni livello, sebbene il punto sia spesso dimenticato nel dibattito pubblico. Basti qui richiamare l’interpretazione “di consenso” proposta da un gruppo di economisti mainstream (tra di essi R. Baldwin, P.De Grauwe, F. Giavazzi e molti altri) disponibile sul sito di vox.eu, che ben evidenzia il ruolo della moneta unica nell’alimentare gli squilibri che avrebbero dato luogo alla crisi e nell’ostacolarne la soluzione. In linea con questa ricostruzione, le fasi che hanno portato alla crisi possono essere così riassunte:

  1. La fissazione di un cambio fisso dà ai paesi “periferici” un premio di affidabilità che, eliminando il rischio legato alla variabilità del cambio, riduce il costo di accesso al credito sui mercati finanziari internazionali; l’effetto è rafforzato dalla convinzione tra gli investitori che nell’ambito dell’eurozona nessuno Stato sarebbe stato lasciato fallire.

  2. Ciò consente alle istituzioni finanziarie dei paesi ‘periferici’ di concedere credito a condizioni generose, rifinanziandosi presso investitori esteri, finanziando investimenti e di spingendo la domanda di consumi durevoli. L’effetto non è però quello di aumentare la produttività: in Spagna (ma anche in Italia) si tratta spesso di investimenti nel settore immobiliare e il credito facile consente a imprese poco efficienti di sopravvivere. Lungi dal rappresentare quel vincolo esterno che qualcuno auspicava, l’effetto è anche quello di rendere meno urgenti riforme nella struttura produttiva. Questa fase di boom, molto vistoso in Irlanda, Spagna e in Grecia, molto meno in Italia, spinge in alto l’inflazione, erodendo la competitività dei paesi periferici rispetto all’area tedesca.

  3. Come effetto della crisi finanziaria, importata nel 2008 dagli Stati Uniti, si determina un “sudden stop”: i rubinetti del credito ai paesi periferici si interrompono bruscamente. La sfiducia nella solvibilità delle banche di questi paesi determina problemi di liquidità e rischio di insolvenza, con l’effetto di determinare crisi bancarie (Irlanda, Spagna, Grecia), fino alla crisi debitoria del 2010-11. I governi di molti paesi europei sono costretti a intervenire con operazioni di salvataggio dei propri sistemi bancari. Paesi come Spagna e Irlanda vedono il proprio debito pubblico, che prima della crisi era ben al di sotto del limite del 60%, raggiungere rapidamente livelli molto elevati.

  4. La crisi di fiducia, la necessità di ricorrere a forme di garanzia sostitutive in assenza di una propria banca centrale e, in alcuni casi, la necessità di ricorrere prestiti internazionali obbligano i paesi in crisi ad accettare pesanti politiche di consolidamento fiscale e deflazione, tali da ristabilire l’equilibrio con l’estero e riallineare la competitività: compressione salariale, deregolazione del lavoro ecc.

Rispetto alla sequenza descritta, agisce un secondo fattore, che la ricostruzione “di consenso” tende a trascurare ma è stata sottolineata da altri protagonisti del dibattito. Mi riferisco alla politica di compressione dei redditi e dei salari messa in atto con decisione in Germania. La Germania si è tradizionalmente dotata di un sistema di relazioni industriali coordinato, in grado di controllare la dinamica salariale nella propria manifattura e quindi di “manovrare” la propria competitività di prezzo; a questo si aggiungono gli effetti depressivi sui salari delle delocalizzazioni presso i paesi a Est (fuori dall’area euro) e delle riforme Hartz realizzate sotto il governo Schroeder. La compressione salariale determina bassa inflazione e contenimento dei consumi, e realizza una redistribuzione del reddito a favore dei profitti delle imprese. Tale aumento di profitti non si traduce tuttavia in investimenti interni, ma viene a sua volta incanalato dalle banche tedesche come credito ai paesi periferici.

Accanto al canale finanziario, gli squilibri interni all’eurozona sono dunque alimentati dalle scelte di contenimento dei consumi interni e di crescita basata sull’export della principale economia dell’area. La Germania comincia ad accumulare surplus commerciali e rafforza la propria posizione creditoria verso i paesi periferici dell’eurozona. Potremmo dire che l’economia che spesso viene definita la locomotiva d’Europa si fa in realtà “trainare” dalla domanda degli altri paesi. Tutto questo alimenta la crescita di squilibri esterni, reali e finanziari.

La responsabilità della moneta unica

Occorre soffermarsi meglio sul ruolo dell’unione monetaria. La sequenza sopra descritta non è infatti particolarmente originale, è comune a molte crisi “locali” verificatesi in altre aree del mondo nei decenni precedenti; ma è la prima volta che esso si verifica in paesi ad economia avanzata, e la ragione della novità va ricercata nel fatto che i paesi interessati, a seguito dell’adesione all’euro, non dispongono più di una moneta propria. Da un lato, il cambio fissato in modo irreversibile priva tali paesi di quel naturale meccanismo di ammortizzazione che sarebbe la svalutazione conseguente alla fuga di capitali; dall’altro, il fatto che la banca centrale sia indipendente e non più nazionale rende fragile l’elemento di garanzia di ultima istanza sulla solvibilità del paese.

Possiamo dire che la moneta unica, lungi dal fornire protezione ai paesi ad alto debito, rappresenta un elemento di fragilità per le economie ad alto debito. Non disponendo più di una propria banca centrale nazionale che possa fungere da prestatore di ultima istanza, e quindi rassicurare gli investitori sulla disponibilità di liquidità sufficiente a ripagare i titoli in circolazione, i paesi debitori dell’eurozona devono negoziare il sostegno della banca centrale europea con i paesi creditori. È evidente a questo riguardo il conflitto di interessi, visto che i paesi creditori, al fine di preservare il valore dei crediti delle proprie banche e dei propri investitori, hanno tutto l’interesse a scaricare interamente sui debitori i costi del riequilibrio, spingendo per l’attuazione di politiche deflazionistiche.

La moneta unica determina insomma una divergenza di interessi e un’asimmetria di potere politico tra creditori e debitori a tutto vantaggio dei primi. È questa asimmetria a consentire ai creditori di codificare l’austerità in un sistema di regole rigide (fiscal compact, pareggio di bilancio in costituzione ecc.) e di imporre pesanti riforme strutturali (flessibilità del mercato del lavoro, riduzione della spesa pubblica e del welfare ecc ); una politica minimamente ragionevole avrebbe per lo meno richiesto un intervento coordinato nei paesi creditori, mirante a riequilibrare il divario di competitività con azioni di rilancio della domanda.

La questione è pesante dal punto di vista economico, ma ha anche serie conseguenze sul piano politico. È sempre più chiaro che il progetto di un’Europa di eguali è completamente deragliato. La moneta unica, che doveva essere uno strumento di coesione e protezione dei paesi membri, diventa fonte di squilibrio e amplificazione delle differenze. Emblematico a questo riguardo il caso della Grecia, costretta ad accettare cure sempre più dure a difesa dell’integrità del patrimonio dei creditori, anche quando è a tutti evidente che il debito non potrà mai essere ripagato.

Aggiustare l’euro

Se la crisi ha messo a nudo la strutturale debolezza dell’eurozona, è naturale chiedersi quali azioni possano essere messe in atto per raddrizzare la pianta, per evitare che nuove analoghe crisi si verifichino. Nel rispondere, non basta ovviamente immaginare un diverso assetto monetario, occorre chiedersi come il cambiamento auspicato possa essere realizzato nell’attuale quadro di divergenza di interessi e di rapporti di forza.

Si sente spesso affermare che occorre cambiare “le regole”. Il che è indubbiamente vero, purché si abbia chiaro che le regole sono sempre il riflesso di un equilibrio di rapporti economici e politici; ciò vale anche per le regole attuali codificate nei trattati, che sono il complemento di una costruzione che, seppure da noi giudicata negativamente, ha una sua logica.

Per chiarire: è vero che le regole del patto di stabilità e crescita (nonché il fiscal compact) impongono politiche di austerità che hanno rallentato e impedito una rapida uscita dalla crisi. Ma una loro eliminazione non sarebbe sufficiente a risolvere il problema. In assenza di un’azione coordinata in senso espansivo di tutti i paesi, a cominciare dalla Germania, lo sforamento dei vincoli di bilancio rischierebbe infatti di portare rapidamente al manifestarsi di squilibri nella bilancia dei pagamenti (cioè nei conti con l’estero), e quindi a una nuova crisi. Le regole di bilancio rigide sono il complemento di un sistema di cambi irreversibili in cui i paesi non vogliono assumersi obblighi reciproci rispetto ai rispettivi conti pubblici ma nemmeno possono permettersi il default di uno di essi.

Questo per dire che il cambiamento delle regole non è in grado di per sé di determinare un diverso assetto dell’eurozona, ma deve presupporre l’adesione a tale assetto nella pratica delle scelte politiche dei paesi aderenti. Come dovrebbe essere ormai chiaro, le regole europee sono applicate in modo selettivo, in ragione dei rapporti di forza di cui dicevamo. Il fiscal compact e le sanzioni ivi previste sarebbero ben poca cosa se i paesi non fossero soggetti a meccanismi di pressione ben più forti, quali il rischio di ritrovarsi esposti alla speculazione dei mercati finanziari privi dell’ombrello protettivo della banca centrale (leggi: spread elevati). Come in molti altri contesti, le regole europee sono vincolanti, ahimé, solo per coloro che non hanno la forza di ignorarle.

Tra le proposte di riforma che circolano in questo momento, particolarmente significativa è quella formulata nel cosiddetto Rapporto dei Cinque Presidenti, sottoscritto dai vertici delle principali istituzioni europee. Al netto di ipotesi e proposte che alla fine non sono niente più che auspici, essa si sostanzia di due punti qualificanti: la richiesta di riforme strutturali e una maggiore integrazione finanziaria. È noto che nel linguaggio delle raccomandazioni europee per riforme strutturali si intende in primo luogo la flessibilizzazione del mercato del lavoro e lo smantellamento delle forme di contrattazione centralizzata in favore della contrattazione aziendale; in sintesi, una maggiore facilità di licenziamento che favorisca l’adattamento delle retribuzioni all’andamento del mercato e che consenta un rapido riequilibrio della struttura produttiva attraverso la riallocazione dei fattori produttivi. La ragione di tale insistenza è ovvia: la rigidità del cambio deve essere compensata da una maggiore capacità di assorbimento degli shock da parte del mercato del lavoro; in quest’ottica, anche la mobilità geografica del lavoro (cioè la migrazione intra-comunitaria) va incoraggiata.

Il secondo aspetto è quello dell’integrazione finanziaria: uno dei problemi che hanno dato luogo alla crisi degli anni 2011-12 è stato il “loop” tra banche e debito pubblico, per cui i sistemi bancari nazionali erano tra i maggiori possessori di debito del loro paese, e ciascuno stato era il garante del proprio sistema bancario. Su questa linea, l’Unione si è mossa in questi anni in direzione della creazione di un’unione bancaria. Un progetto in astratto auspicabile, se non fosse che di una vera integrazione bancaria non è mai stato accettato un elemento chiave: la garanzia comune dei depositi. La Germania si è infatti sempre opposta, chiedendo che preventivamente si intraprendessero azioni miranti a isolare le banche dal bilancio pubblico, da un lato introducendo un divieto di salvataggio delle banche coi soldi pubblici (il cosiddetto bail-in), dall’altro proponendo di aumentare il costo per le banche di detenere titoli di stato dei paesi più “a rischio”. Resta da capire se parte di tale maggiore integrazione non sia un implicito incoraggiamento delle acquisizioni delle banche dei paesi periferici da parte dei sistemi bancari dei paesi più “forti”. È peraltro probabile che le ultime vicende, con il salvataggio delle banche venete, saranno utilizzate come argomento per rinviare sine die ogni ulteriore avanzamento su questo fronte.

L’unione politica

La correzione dell’unione monetaria che si sta realizzando è dunque qualcosa di ben diverso dall’unione fiscale e politica che qualche ben intenzionato auspica. Anche laddove il termine unione fiscale compare nei documenti ufficiali, non si allude certo ad una condivisione del debito (eurobond) o alla realizzazione di trasferimenti fiscali tra paesi (possibilità tassativamente esclusa dai politici tedeschi di ogni colore); l’idea è semmai quella di vincolare ulteriormente l’autonomia dei paesi membri in tema di politica fiscale, assegnando ad un ministro delle finanze europeo il potere di veto sulle leggi di bilancio dei singoli stati. A ben vedere, sarebbe un’ulteriore cessione di sovranità cui però non corrisponderebbe né una maggiore solidarietà tra paesi né alcuna nuova forma di controllo democratico sull’operato delle istituzioni europee.

E qui sta alla fine il punto: una “vera” unione fiscale, come quella che si realizza in qualsiasi stato, anche federale, comporterebbe trasferimenti sistematici dalle zone più ricche a quelle meno ricche. Sarebbe questa infatti la conseguenza del riconoscimento di diritti sociali comuni e un comune sistema di imposizione. Ma, come abbiamo detto, si tratta di un’ipotesi che non è sul tavolo della trattativa, né si capisce perché le zone ricche dell’Unione dovrebbero accettarla in un futuro ragionevolmente vicino.

C’è peraltro da chiedersi se una tale più stretta integrazione, con creazione di un super-stato europeo, quand’anche fosse politicamente attuabile (e non lo è), sarebbe per tutti auspicabile. Verosimilmente essa comporterebbe infatti una “meridionalizzazione” del Sud Europa, una riduzione della nostra economia ad appendice periferica, e in parte assistita, di un core che avrebbe il proprio centro nell’area tedesca.

Parlando di integrazione politica tra stati, non può non tornare alla mente del resto l’argomento avanzato già nel 1938 da Friedrich von Hayek, uno dei pensatori di riferimento della visione neoliberista. Nell’auspicare la creazione di un federazione tra stati egli avanzava il seguente argomento: portando il livello della decisione politica e di governo ad un livello sovranazionale, sarebbero venuti a mancare i presupposti (di consenso, di solidarietà) per realizzare forme di intervento pubblico nell’economia. L’integrazione politica sovranazionale sarebbe dunque la migliore premessa al progetto liberista di riduzione dello spazio di intervento e regolazione pubblica; l’azione pubblica sarebbe infatti da un lato impedita a livello decentrato, per effetto della perdita di sovranità degli stati nelle decisioni economiche, ma dall’altro essa sarebbe irrealizzabile a livello sovrastatuale. Anche se Hayek non è considerato tra i “padri” dell’Europa, il quadro da lui delineato è una descrizione lucida delle conseguenze dell’integrazione politica.

La pianificazione e la direzione centralizzata dell’attività economica pr esuppongono l’esistenza di ideali comuni e valori comuni; e l’intensità con cui la pianificazione può essere realizzata è limitata dalla capacità di ottenere e far valere un accordo su una tale scala comune di valori. È chiaro che un simile accordo sarà tanto meno difficile quanto maggiore è l’omogeneità e similarità di mentalità e tradizioni degli abitanti di una certa area. (…) Deve essere chiaro che le persone saranno riluttanti ad assoggettarsi a qualsiasi interferenza nei loro affari quotidiani quando la maggioranza che indirizza il governo è composta da persone di diversa nazionalità e diverse tradizioni. (…)

Sembrano esserci ben pochi dubbi che lo spazio per la regolamentazione dell’attività economica sarà molto più ristretto per il governo centrale di una federazione di quanto non lo sia per gli stati nazionali. E dato che, come abbiamo visto, il potere degli stati che sono parte della federazione sarà ancora più limitato, gran parte dell’interferenza con la vita economica alla quale ci siamo abituati sarà del tutto impraticabile entro un’organizzazione federale. (…)

La conclusione che, in una federazione, certi poteri economici, che sono attualmente prerogativa dagli stati nazionali, non potrebbero essere esercitati né a livello federale né dai singoli stati, implica che, qualora la federazione fosse fattibile, ci sarebbe complessivamente un minore ruolo per il governo. (…)

La questione tedesca

Ma il nostro europeista ben intenzionato ragiona forse in modo più pragmatico: l’integrazione politica serve per distribuire in modo più simmetrico il potere decisionale rispetto all’attuale contesto di negoziazione tra governi, dove i rapporti di forza sono schiacciati a favore dei paesi creditori. Qui intravediamo tuttavia un vizio logico del ragionamento: ogni avanzamento del progetto di integrazione sarebbe infatti a sua volta l’esito di una negoziazione, nel quadro dei rapporti di forza dati; con un minimo di realismo dobbiamo quindi supporre che esso non possa che avvenire alle condizioni del paese politicamente più forte, che venderà caro ogni arretramento rispetto al proprio interesse.

L’idea di fare l’unione politica per “mettere la Germania in minoranza” è insomma politicamente risibile. Se sarà realizzata un’unione politica, sarà alle condizioni poste da Berlino, ovvero in linea con l’attuale impianto deflazionisticoe mercantilista. Ogni ipotesi di allentare le regole di bilancio al fine di rilanciare l’economia con politiche “keynesiane” di domanda è del resto totalmente estranea alla cultura economica tedesca. Come ebbe ad affermare ironicamente Wolfgang Muenchau, giornalista tedesco del Financial Times, “gli economisti tedeschi si dividono grosso modo in due gruppi: quelli che non hanno letto Keynes e quelli che non l’hanno capito”.

Ma non è solo questione culturale! Il compianto Marcello De Cecco, che pure non riteneva vi fossero alternative alla nostra adesione alla moneta unica, così descriveva la condizione dell’unione monetaria:

La zona euro detiene invidiabile primato storico: è l’unica area monetaria imperniata su un paese creditore, la Germania. Si tratta di una condizione assolutamente anomala: mai, prima d’ora, si era data una moneta a circolazione plurinazionale costruita attorno a un paese strutturalmente esportatore, perché la funzione del fulcro di un sistema monetario è creare liquidità, non drenarla.

Oggi è giunto il momento di chiederci onestamente se Berlino sia in grado di svolgere la funzione di fulcro del sistema monetario europeo. Ovvero, se abbia validi incentivi a ricoprire tale ruolo. La sua storia suggerisce il contrario: sin dall’unità nazionale (1870), la Germania ha registrato un costante surplus nel settore dei beni d’investimento, non a caso coincidente con l’industria bellica. Quando il paese non era impegnato in guerre d’espansione finalizzate a ritagliarsi l’agognato Lebensraum, l’efficiente industria pesante si riconvertiva alla produzione civile, che alimentava il mercato nazionale e poi – una volta completata l’industrializzazione e la messa in piedi di una poderosa rete infrastrutturale interna – le esportazioni.

Il modello tedesco è quel che spesso viene indicato come un modello export led; la sua struttura produttiva è tale da consentire una crescita trainata dal settore manifatturiero orientato all’export. Si tratta di un modello che ha un largo sostegno nel paese, anche da parte dei sindacati (con poche eccezioni), in quanto sta garantendo, pur al prezzo di larghe fasce di lavoro poco garantito e di una crescita delle diseguaglianza, livelli elevati di occupazione ed elevati profitti.

Non solo tale modello non è generalizzabile all’intera Europa; esso risulta per i paesi partner estremamente costoso, dal momento che le politiche di contenimento dei redditi e dell’inflazione impongono, condividendo la stessa moneta, una condizione di deflazione permanente per il resto del continente.

La domanda preliminare ad ogni ipotesi di riforma radicale dell’Unione dovrebbe essere allora questa: c’è modo di convincere la Germania ad accettare di essere lei il problema? Di aver un modello economico incongruente con la creazione di un’unione monetaria? Chi come me non riesce a trovare argomenti convincenti a rispondere affermativamente a questa domanda, difficilmente potrà credere alla riformabilità dell’euro in direzione di un modello più equilibrato.

Un progetto deragliato: vi sono alternative?

La moneta unica, lungi dall’essere stato un fattore di stabilità e protezione dalla crisi, ha in realtà accentuato gli effetti della stessa, prima determinando una situazione di squilibrio e poi impedendo l’adozione di politiche correttive adeguate. Tale condizione di fragilità, propria di una moneta senza stato qual è l’euro, permane tuttora, e le misure finora messe in atto – nonché quelle ad oggi sul tavolo della discussione – non sembrano in grado di escludere il rischio che una situazione del genere possa nuovamente verificarsi. D’altra parte, proseguire sulla linea attuale comporta il lento regredire della nostra capacità produttiva e del nostro sistema di protezioni sociali, e il venir meno delle risorse necessarie ad investire e rilanciare l’economia. Mantenimento dell’euro e austerità sono le due facce di una stessa medaglia.

Appare ormai chiaro ciò che non era così evidente nella prima fase della moneta unica: a fronte di dubbi vantaggi, la moneta unica si è rivelata uno strumento di realizzazione di un progetto di riforma dell’economia europea in direzione di un progressivo smantellamento degli elementi di regolazione del mercato del lavoro, e di progressiva riduzione del sistema di welfare. Si tratta di una conclusione particolarmente triste per chi, come il sottoscritto, aveva immaginato il progetto europeo come rafforzamento di un modello sociale basato sulla sicurezza economica e il benessere diffuso. È paradossale constatare che la rinuncia a tale modello sociale è diventato il prezzo dell’integrazione.

Si è trattato di un deragliamento o tale esito era stato in qualche modo preventivato dai protagonisti degli anni in cui l’assetto di Maastricht è stato disegnato e avviato? Particolarmente illuminante a questo proposito quanto racconta l’ex governatore della Banca d’Italia Guido Carli nelle sue memorie: secondo Carli il vincolo esterno europeo avrebbe consentito di “innestare l’economia di mercato nel tessuto vivente … della società italiana, favorire la nascita di una nuova classe dirigente … l’abbattimento dell’economia mista, l’alienazione del patrimonio mobiliare pubblico” (Carli 1993). Rileggere queste parole suscita tante domande sul grado di consapevolezza di un’intera classe politica, di destra e di sinistra, e sulle reali ragioni delle scelte di allora. Domande per gli storici, ma non senza implicazioni in termini politici.

A noi resta immaginare una prospettiva, una via d’uscita. Non c’è qui lo spazio per affrontare il tema, complesso sia sul piano economico che politico, del possibile smantellamento dell’unione monetaria. Ma è chiaro che questa opzione non solo non può più essere esclusa, ma deve anzi essere presa sul serio come condizione per tornare a realizzare politiche di crescita. Il tema va affrontato con urgenza.