Perché siamo stati convinti europeisti? Consentitemi di partire con una citazione: rispetto agli americani,

«gli europei avevano deliberatamente scelto di lavorare meno, guadagnare meno e fare una vita migliore. In cambio di tasse eccezionalmente elevate (ostacolo alla crescita e all’innovazione, secondo i critici angloamericani) godevano di servizi medici gratuiti o quasi, della possibilità di un precoce pensionamento e di una straordinaria serie di altri servizi pubblici e sociali. Avevano una vita più sicura e – in parte proprio per questo – più lunga, godevano di salute migliore (pur spendendo molto meno) e il numero di persone in condizioni di povertà era nettamente inferiore. Era questo il ‘modello sociale europeo’. Indubbiamente era molto costoso, ma, per la maggior parte, la promessa di un lavoro sicuro, di imposte progressive e di generose sovvenzioni sociali rappresentava un implicito contratto tra governo e cittadini. Secondo i dati dell’eurobarometro, una stragrande maggioranza riteneva che la povertà fosse causata da circostanze sociali e non da incapacità individuale ed era pronta a pagare più imposte se fossero state utilizzate per ridurre la povertà. Come facilmente prevedibile, la posizione era particolarmente diffusa nei paesi scandinavi, ma era quasi altrettanto prevalente in Gran Bretagna, Italia e Spagna. C’era un consenso internazionale e senza distinzione di classe sul dovere dello Stato di proteggere dai rischi di una disgrazia o del mercato; né lo Stato né le aziende potevano trattare i dipendenti come unità anonime di produzione. Responsabilità sociale e profitto non dovevano essere incompatibili: la ‘crescita’ era cosa lodevole, ma non a tutti i costi (…) Si trattava di una determinata percezione (talvolta esplicitamente espressa in leggi e documenti) circa l’equilibrio tra diritti sociali, solidarietà civica e responsabilità collettiva, ritenuto appropriato e possibile per lo Stato moderno»

Il testo è tratto dal capitolo conclusivo (dal titolo: “L’Europa come stile di vita”) dell’ultimo grande lavoro di T. Judt, Dopoguerra, 2005, opera monumentale sulla recente storia europea.

Ebbene, noi siamo stati (e in parte ancora siamo) europeisti perché abbiamo visto nell’Europa una missione. Quella di insegnare al mondo la convivenza pacifica tra stati che per secoli si sono combattuti, e quella di offrire al mondo un modello di organizzazione sociale che tenesse insieme i vantaggi del capitalismo riducendone al minimo i costi sociali.

L’identità europea, gli scambi culturali, la comunanza di valori, sono un dato di fatto, da secoli, che precede e sopravviverà a progetti politici. D’altra parte, di progetti politici di unificazione europea ce ne sono stati molti e diversi, dal Sacro Romano Impero a imprese scellerate come quello di unificazione sotto il Reich hitleriano. Il nostro europeismo – parlo per me, ma credo che il sentimento sia condiviso – si basava sull’idea che l’Europa fosse portatrice del compromesso più avanzato raggiunto tra democrazia, istanze sociali e capitalismo. Questo compromesso non era esso stesso frutto dell’Europa come progetto unitario. Era l’esito dovuto a percorsi e traiettorie differenti nei decenni precedenti, ma con degli indubbi elementi di convergenza.

Senza esagerare le differenze con gli Stati Uniti (dovremmo trascurare il New Deal), il tratto peculiare era quello ben descritto da Judt: sicurezza e protezione sociale, contenimento delle diseguaglianze, regolazione dei mercati fino alla partecipazione pubblica alla gestione dei servizi e delle infrastrutture. L’idea era che l’unione politica in dimensione continentale potesse meglio contribuire ad affermare tale modello. Ma non è questo che vediamo oggi realizzarsi.

Il progetto europeo si è sviluppato nell’ambito e come risposta alle sfide posta dai processi di globalizzazione. Processi non certo naturali, ma frutto di scelte ben precise. Dopo il periodo di Bretton Woods, che aveva garantito un equilibrio tra stabilità monetaria e apertura agli scambi, la globalizzazione aveva determinato una progressiva deregolamentazione dei flussi di capitale, con l’idea che tale mobilità avrebbe determinato un’allocazione del capitale più efficiente. L’effetto collaterale di dare ai capitali un potere di interdizione sulle politiche. In economia, la mobilità, la disponibilità di usi alternativi, è sempre un elemento di forza. Prendendo questo contesto come un dato ineludibile, si fece strada l’idea della inadeguatezza degli stati nazionali. Le diverse identità nazionali, e la diversità istituzionale che si portavano dietro, erano un ostacolo, erano un’anacronistica zavorra per il processo di unificazione continentale.

Ma il progetto europeo prevedeva anche un versante “interno”. In molti dei protagonisti dell’epoca c’era l’idea era che il mercato unico e la spinta concorrenziale che essa determinava avrebbero portato ad una modernizzazione dell’economia, ad una sua riforma. In nessuno questa idea è espressa in modo così lucido come in Guido Carli, che decrive lucidamente il passaggio di Maastricht come l’adozione del “vincolo esterno” che, elemento di disciplina per un paese che faticava a liberarsi dell’eredità ideologica del comunismo e del pensiero sociale cattolico.

È stupefacente constatare l’indifferenza con la quale in Italia è stata accolta la ratifica del trattato di Maastricht (…) La cosa è tanto più difficile da comprendere se si considera che per l’Italia, più che per tutti gli altri Paesi membri della Comunità, il trattato rappresenta un mutamento sostanziale, profondo, direi di carattere “costituzionale”.

L’Unione Europea implica la concezione dello “Stato minimo”, l’abbandono dell’economia mista, l’abbandono della programmazione economia, la ridefinizione delle modalità di composizione della spesa, una redistribuzione delle responsabilità che restringa il potere delle assemblee parlamentari ed aumenti quelle dei governi, l’autonomia impositiva degli enti locali, il ripudio del principio della gratuità diffusa (con la conseguente riforma della sanità e del sistema previdenziale), (…)

L’assetto di Maastricht e la moneta unica venivano da Carli celebrati per il fatto che avrebbero determinato la fine dell’economia mista e la premessa della assunzione profonda della logica del mercato nel tessuto sociale economico del Paese.

Sarà compito degli storici chiarire come abbia potuto la sinistra aderire ad un progetto, la moneta unica, che poteva essere a ragione letto in questo modo, e che fino a pochi anni prima aveva visto con sospetto, leggendovi una premessa ad un cambiamento dei rapporti di forza tra capitale e lavoro. Credo cha a questo riguardo abbia giocato un ruolo importante la profonda sfiducia delle classi dirigenti, soprattutto a sinistra, sulla tenuta della democrazia, l’idea di una democrazia fragile, immatura, bisognosa di un tutore. Ricordo bene lo shock che fu per tutti noi la vittoria di Berlusconi del 1994, quando, dopo il crollo dei partiti di governo della I Repubblica, sembrava che la strada fosse spianata per una maggioranza di sinistra. Credo che in molti in quell’occasione si sia radicata ll’idea che la nostra democrazia non potesse essere lasciata in balia del voto degli italiani, l’idea che l’Italia fosse un paese «strutturalmente di destra». In quest’ottica, legarsi ancora più strettamente all’Europa doveva servire come ancoraggio alle democrazie liberali, perché l’alternativa sarebbe stata una sua deriva verso qualche forma di populismo di marca sudamericana o peggio.

Purtroppo gli effetti del “vincolo esterno” si manifestarono in modo molto netto fin da subito. Tra gli esiti immediati ne individuo tre in particolare:

  • Le privatizzazioni, sotto la spinta della disciplina sugli aiuti di stato e su un accordo esplicito, poi come elemento di buona volontà per rientrare nei parametri di Maastricht. Ciò determinò ad esempio l’affrettata e discutibile privatizzazione delle autostrade.
  • La dinamica del debito: l’Italia potè partecipare con più sicurezza al trend di riduzione dei tassi di interessi (che per la verità non fu affatto esclusivo dei paesi aderenti all’euro). In cambio, rinunciando all’effetto dell’inflazione e ridenominando il debito in una valuta della quale non aveva il controllo diretto, la sostenibilità del debito fu resa più incerta (come dimostra la crisi del 2011, l’appartenenza all’euro non fornisce una difesa automatica, al più una difesa condizionata a scelte politiche determinate altrove); inoltre, quello costringere il rientro dal debito attraverso avanzi primari in contesto di bassa crescita e bassa inflazione non è una scelta neutrale, è chiaramente una scelta a favore dei creditori. Giova ricordare a questo riguardo che in questo caso i creditori sono i detentori di ricchezza, i debitori sono coloro che pagano le imposte in Italia.
  • Terzo e fondamentale aspetto: le riforme del mercato del lavoro. Il vincolo esterno doveva alzare l’asticella e realizzare quella selezione delle imprese più efficienti e più dinamiche. In realtà essa determina una spinta a liberalizzare i rapporti di lavoro al fine di contenerne il costo. Il mercato del lavoro è diventato il punto di caduta delle tensioni esterne tra gli stati aderenti. La svalutazione interna un rimpiazzo di quella esterna, non più possibile. Nell’ambito dell’eurozona, ci troviamo in diretta concorrenza con un Paese che ha una superiore capacità di contenere i costi e inflazione a fronte di aumenti di produttività, e che realizza politiche mercantiliste. Ciò determina, come sappiamo, una spinta a comprimere il costo del lavoro e i diritti dei lavoratori.

Insomma, laddove mancò la lungimiranza ci viene in soccorso il senno di poi, e non può sfuggire lo scarto tra le ragioni del progetto (l’affermazione del modello sociale europeo) e la cupa realtà.

Gli italiani sono diventati euroscettici perché hanno visto il tradimento del patto implicito. Dico gli italiani, ma ovviamente l’effetto non è stato simmetrico: c’è chi era più attrezzato e più implicitamente protetto, e quindi ha sofferto in modo più limitato i costi che ho descritto.

Ciò ha avuto ovvie conseguenze politiche: il consenso a sinistra è rimasto sempre più confinato nelle categorie protette, in parte rappresentate dai famosi “ceti medi riflessivi”. La parte più colpita non si è sentita rappresentata e si è rivolta altrove. È storia nota, che è superfluo ribadire, se non per richiamare quello che a mio avviso uno dei risvolti più grotteschi di questa incapacità di leggere la realtà: oggi sentiamo vagheggiare la superiorità del “governo dei competenti” (spesso si tratta di competenti auto-definitisi tali), sentiamo letture del conflitto politico basate sulla contrapposizione tra colti e ignoranti, cose che avrebbero fatto inorridire i leader della sinistra di un tempo. L’idea implicita in molte di queste affermazioni è il suffragio universale e la democrazia siano un problema. Lo scollamento che si è determinato è qualcosa che va ben oltre la politica: è evidente la sfiducia che la maggior parte dei nostri concittadini nutre ormai per ogni autorità, non solo nel campo dell’informazione, ma anche in quello della sanità, della scienza. Se c’è un problema, tacciare il mondo di ignoranza non serve, bisogna ricostruire un rapporto di fiducia, cercando di capire perché tale fiducia sia venuta a mancare. Nel quadro descritto, la sinistra appare oggi come la forza di chi se la cava. “L’Italia che non ha paura” è lo slogan scelto dal Pd. Ma il problema è che l’Italia ha paura. Non solo o non principalmente di qualche migliaio di immigrati irregolari. C’è paura del futuro, abbiamo paura per le prospettive dei nostri figli, che spesso devono andare a vivere a migliaia di km per trovare un lavoro decente. All’Italia che ha paura il governo si propone offrendo difesa e protezione.

Cosa dovrebbe fare la sinistra? Torno al mio punto iniziale: il modello sociale caratterizzato da elevata protezione, regolazione eccetera. Lo stato sociale uno strumento di redistribuzione, ed è un meccanismo per eguagliare le opportunità, ma è soprattutto un meccanismo di assicurazione dai grandi rischi dell’esistenza. È qualcosa che serve a ridurre il rischio di essere esposti alla dinamica distruttiva-creatrice del capitalismo. Protegge da rischi che il mercato non è in grado autonomamente di assicurare, se non a costo elevato e in modo incompleto. I rischi sulla salute, la malattia, l’invalidità, la vecchiaia, il rischio di perdere la propria occupazione, il rischio di perdere l’accesso a beni essenziali per sé e per i propri figli nel caso in cui la vita non ci riservi il successo che avevamo sperato.

Secondo un’interpretazione diffusa (a destra, ma anche da economisti vicini al Pd) il problema degli italiani sarebbe il fatto di non essere sufficientemente esposti alla “durezza del vivere”. Non ho nessuna simpatia per certi eccessi di protezione verso i figli, ma qui parliamo d’altro. Parliamo del fatto che solo quando protetti dai grandi rischi, non altrimenti assicurabili, le persone manifestano a loro volta una propensione a rischiare, a mettersi in gioco, a innovare ecc. In questo senso, tra stato sociale e performance di mercato non c’è necessariamente conflitto. Un welfare efficace non è un costo, ma una precondizione dello sviluppo. La sinistra avrebbe insomma nella propria storia le risorse per rispondere a questo bisogno di sicurezza e protezione, ma le ha abbandonate in nome di altro.

Come dicevo, abbiamo associato il modello di elevata protezione sociale all’Europa. Ma il suo sviluppo è stato possibile all’interno della realtà degli stati nazionali. Storicamente, gli stati nazionali hanno svolto una duplice funzione di sostegno allo sviluppo del capitalismo: la prima è quella di omogeneizzare la cultura, rendendo possibile la condivisione di codici di comunicazione, uniformando regole e norme, linguaggi. Ciò al fine di garantire la mobilità settoriale e territoriale richiesta dal sistema capitalista. La seconda è stata quella di fornire protezione, anche nel senso che dicevo. Questo è andato in parallelo con la progressiva apertura alla partecipazione democratica, con l’allargamento il suffragio e la nascita dei partiti di massa. La protezione sociale, lo sappiamo, è stato anche il prezzo da pagare per la stabilità sociale (e per evitare i guai peggiori di una rivoluzione).

Insomma: stato nazionale, forme di protezione sociale e democrazia sono istituzioni che si sono storicamente sostenute a vicenda. Lo stato su base nazionale ha garantito quel senso minimale di identificazione e di missione comune, e quindi di fiducia reciproca, che solo rende possibile l’esercizio della democrazia e che solo garantisce la base di sostegno all’idea di redistribuzione. Sono solidale con chi percepisco parte della comunità, simile a me, perché al suo posto potrei esserci io. Per questo, come confermato da molti studi, l’intensità della redistribuzione e della protezione sociale è funzione del grado di coesione e anche di omogeneità della comunità. Società divise su linee di frattura (etniche, linguistiche, religiose) hanno più difficoltà. Se è vero che spesso gli stati nazionali si sono formati laddove c’era omogeneità, sarebbe un errore esagerare tale aspetto. La “comunità immaginata” della nazione, l’idea di patria comune fondata su una storia comune, è stata spesso ciò che ha consentito di trovare l’unità al di sopra di tali divisioni. La nazione ha assolto molto bene, quando si sia stati attenti a evitare degenerazioni in senso aggressivo e imperialistico, al compito difficile di consentire la realizzazione di obiettivi comuni, di organizzare la solidarietà e la possibilità di decidere collettivamente da parte di comunità composte da milioni di persone, se ci pensiamo qualcosa di formidabile.

L’idea di realizzare a livello europeo qualcosa di simile al processo di costruzione di una realtà nazionale che gli stati hanno sperimentato nell’età moderna è certamente affascinante, ma anche molto difficile ed estremamente rischioso. Rispetto ai secoli passati alcune condizioni cruciali sono diverse: bisogna fare i conti con la democrazia, c’è fortunatamente avversione allo strumento della guerra, c’è resistenza all’idea che la cultura di un paese debba prevalere su quella di altri. Tutte cose estremamente positive, ma tali da impedire quelle forzature che hanno caratterizzato tutti i processi di unificazione nazionale, segnati da guerre, assimilazioni forzate, imposizioni autoritarie. Tutti i processi di unificazione nazionale hanno il loro lato oscuro e già questo raccomanderebbe prudenza.

Dovremmo d’altra parte riflettere sul possibile esito di un’unificazione compiuta in assenza delle necessari condizioni in termini di coesione. È noto il modo in cui l’unificazione di stati indipendenti era descritta dall’economista e filosofo liberale Friedrich von Hayek, che nel 1937, in un saggio su le condizioni economiche per il federalismo interstatuale affermava:

«Se le unità sovrane fossero molto più larghe di oggi, sarebbe molto più difficile porre sugli abitanti di una regione il peso dell’assistenza agli abitanti di un’altra regione molto distante, diversi da loro non solo nel linguaggio ma in quasi ogni altro aspetto. La pianificazione, o la direzione centrale dell’attività economica, presuppongono l’esistenza di ideali comuni e valori comuni. È chiaro come le persone saranno riluttanti a sottostare a qualsiasi interferenza nei loro affari quotidiani quando la maggioranza che dirige il governo è composta di persone di diverse nazionalità e tradizioni.»

Per von Hayek, insomma, sembrano esserci ben pochi dubbi sul fatto che lo spazio per la regolazione della vita economica sarà molto più ristretta per il governo centrale di una federazione di stati di quanto non lo sia per gli stati nazionali. In una federazione di stati molti dei poteri economici che oggi sono normalmente affidati agli stati nazionali, non potrebbero essere esercitati né dalla federazione né dagli stati individuali. «Questo implica che dovrebbe esserci complessivamente un minore governo dell’economia perché la federazione sia realizzabile.» Hayek auspicava la federazione di stati perché vi vedeva il terreno propizio per affermare l’ideale liberista di stato minimo.

A queste considerazioni generali dovremmo aggiungere quanto è sotto i nostri occhi in Europa. La realizzazione dell’unità a partire dall’unificazione monetaria è stata un errore, ormai tutti lo ammettono. L’unione monetaria ha accentuato asimmetrie e conflitti, a cominciare dalla contrapposizione tra paesi debitori e creditori, ha accresciuto i sentimenti di sospetto se non di ostilità reciproca. In breve, ha reso ancora più difficile pensare ad un’unificazione politica.

E infatti tale unificazione non è sul tavolo. Chi conosca un minimo i progetti di “deeper union” discussi a livello europeo sa benissimo che non c’è nessuna evoluzione positiva nel senso di un’Europa solidale, ma c’è solo l’idea di rafforzare i meccanismi esistenti. Occorre al contrario rendersi conto degli aspetti regressivi sul piano sociale del progetto europeo per come esso è realmente, del mercato unico e dell’euro. Andando avanti su questa strada, l’integrazione europea rischia di doversi costruire sulle rovine del suo modello sociale. D’altra parte, legare oggi ogni l’iniziativa politica alla speranza di un’ipotetica Europa federale, sacrificando a tale sogno lo strumento più efficace che abbiamo saputo inventare per arginare il capitalismo, ovvero lo stato con il suo sistema di regolazione e protezione sociale, non è una scelta saggia. Se ci stanno a cuore diritti sociali e democrazia non possiamo permetterci lo smantellamento dello stato nazionale e il depotenziamento delle sue funzioni che qualcuno, anche a sinistra, dissennatamente auspica.