C’è consenso tra gli studiosi, ma anche tra le forze politiche, sul fatto che il principale vantaggio del federalismo fiscale sia l’avvicinamento al cittadino delle decisioni di spesa, nonché la maggiore corrispondenza che si realizzerebbe tra queste e le decisioni relative al finanziamento tramite imposte e tariffe. Il principio è quello della responsabilizzazione del governo locale, che a fronte delle imposte riscosse dovrebbe fornire servizi adeguati ed essere maggiormente “controllabile” dai cittadini elettori. L’intera costruzione di un sistema di tributi locali si giustifica sulla base dell’idea che gli errori dell’amministrazione (inefficienze, spese ingiustificate) si traducano nella necessità di aumentare le imposte, cui seguirà inevitabile la sanzione dell’elettore. In modo corrispondente, quella collettività che volesse un livello maggiore di servizi potrebbe ottenerli dal governo locale pagandoli con maggiori imposte.

Perché questo si realizzi, perché il meccanismo descritto funzioni, il legame tra benefici ricevuti dai cittadini/elettori/utenti/contribuenti e i costi da questi sostenuti sotto forma di imposte e tariffe deve essere quanto più possibile stretto. Il problema principale si pone ovviamente per quei beni e servizi di natura collettiva, e quindi non tariffabili, per i quali il beneficio ricevuto da ciascuno può al massimo essere dedotto indirettamente, ad esempio a partire dal livello generale di consumi o dal reddito.

Un indicatore particolarmente efficace dei benefici ricevuti dall‘amministrazione locale è il valore dell’immobile di abitazione, visto che la presenza di un elevato livello di servizi viene normalmente capitalizzato in tale valore. Il fatto di risiedere accanto ad aree verdi, un’efficace rete di trasporti, scuole di buon livello, aumenta il valore dell’immobile o il reddito da esso ottenibile dandolo in locazione. Da qui la popolarità delle imposte sugli immobili come strumento principale dell’autonomia tributaria; dalla Council Tax britannica, alla Taxe d’Habitation francese, per citare due esempi rilevanti, questa è la soluzione utilizzata pressoché universalmente per finanziare gli enti locali.

Anche in Italia gli immobili rappresentano tuttora la base per la principale imposta comunale, l’ICI. È tuttavia noto che, dal 2008, con decisione dell’attuale governo in ottemperanza alle promesse della campagna elettorale, non sono assoggettate ad ICI le abitazioni principali. La Legge Delega sul federalismo fiscale ha ribadito questo principio, escludendo la possibilità di reintrodurre l’ICI prima casa.

A fronte di questi vincoli, il dibattito dei mesi scorsi si è concentrato sulla possibilità di istituire una service tax, ovvero un’imposta commisurata ai servizi ricevuti dal Comune da ciascun residente. Un’imposta del genere avrebbe realizzato la corrispondenza descritta tra benefici e imposte. Il problema sarebbe stato semmai quello di evitare esiti regressivi di questa soluzione (in una versione estrema, una service tax avrebbe potuto somigliare alla famigerata poll tax voluta a fine anni ’80 dal governo Thatcher, un’imposta di ammontare uniforme per tutti i cittadini residenti che suscitò vivaci proteste e fu alla fine ritirata); una soluzione ragionevole avrebbe comportato un riferimento più o meno diretto alla dimensione e le caratteristiche dell’immobile di residenza, così come già avviene per la TARSU/TIA. Il governo ha deciso di non percorrere questa strada, forse perché avrebbe potuto essere interpretata come un ritorno, seppure indiretto e sotto mentite spoglie, alla tassazione dell’abitazione principale.

Si è invece deciso di rafforzare il carattere locale delle imposte esistenti sul patrimonio immobiliare, riafferrnando allo stesso tempo il principio che il possesso dell’abitazione principale non debba essere né direttamente né indirettamente presa in considerazione come base imponibile. La soluzione è l’IMU, l’Imposta Municipale, ovvero un’imposta sul possesso e il trasferimento di immobili, che dovrebbe riassorbire IRPEF e ICI (per la parte possesso), le imposte ipotecarie catastali, imposta di registro e altre imposte minori (per la parte trasferimento). Per la parte possesso la prima abitazione resterebbe esclusa dalla tassazione, mentre essa sarebbe tassata all’atto del trasferimento di proprietà. Rispetto alla situazione attuale, la differenza principale è la semplificazione derivante dall’accorpamento dei tributi immobiliari in un’unica imposta, attribuita ai Comuni e da questi amministrata. Cambieranno presumibilmente di poco sia la determinazione della base imponibile che la distribuzione del carico fiscale.

Un’altra novità è la possibilità di sottrarre i redditi da locazione dall’IRPEF, e la possibilità di pagare invece su di essi un’imposta sostitutiva del 25%. Resta peraltro poco chiaro il coordinamento di tale imposta con l’IMU.

Rispetto alle esperienze degli altri paesi, l’elemento centrale di differenziazione resta dunque l’esclusione dell’abitazione principale. Se questa esclusione è discutibile in termini di equità (visto che mette sullo stesso piano contribuenti che dispongono di un patrimonio immobiliare molto diverso), essa configura una situazione paradossale se vista nell’ambito dell’attuazione del federalismo fiscale e dei principi esposti in apertura. La conseguenza della non tassazione delle “prime case” è infatti quella di escludere dalla partecipazione ai costi dei servizi comunali buona parte di quell’80% di cittadini che risiedendo in un’abitazione di proprietà. Eppure si tratta proprio di coloro che di tali servizi godono in misura maggiore. Nel federalismo all’italiana dell’IMU, se il Comune aumenta la qualità delle mense scolastiche o gli scuolabus, oppure gli arredi urbani, o la manutenzione delle strade, tali interventi non saranno pagati dai residenti, bensì da chi e proprietario di immobili diversi dall’abitazione principale. Vale a dire da coloro che sono proprietari di una seconda abitazione o di immobili commerciali, e in particolar modo da chi da tali immobili in locazione. Possiamo pensare che chi si tratti di individui mediamente più ricchi; le imposte gravanti sulle abitazioni in locazione ricadono tuttavia almeno in parte sui conduttori in affitto, ovvero in molti casi su quei residenti che non possono permettersi un’abitazione di proprietà: si tratta di giovani (almeno quelli senza una famiglia alle spalle), di immigrati, di famiglie a basso reddito. Il vantaggio per la “classe media” dei proprietari piccoli e grandi sarà solo apparente se il risultato sarà, come ci aspettiamo, la negazione del principio stesso del federalismo fiscale. Una situazione in cui la cattiva amministrazione non sarebbe pagata dalla maggioranza degli elettori residenti nel Comune. A lungo andare una fonte di deresponsabilizzazione.