Questo giornare ha già ospitato diversi commenti all’intervento che David Miliband, candidato alla leadership sconfitto nel recente congresso del partito laburista britannico, ha recentemente tenuto presso la London School of Economics. In quell’intervento Miliband si interroga sulle prospettive dei partiti europei di centrosinistra, quasi ovunque perdenti negli ultimi anni, e disorientati e incerti sulla direzione da prendere.

Miliband ci ricorda che la tradizione socialdemocratica (entro la quale con larghezza anglosassone egli ricomprende un’ampia gamma di esperienze, da Antonio Gramsci a Tony Blair) si e storicamente caratterizzata per la capacita di rispondere con successo a tre grandi questioni che riguardano la vita delle persone: la domanda di protezione dai rischi; l’aspirazione all’autodeterminazione; l’esigenza di legami sociali e comunitari forti. Questo programma è ancora vivo e attuale, ma sono cambiati nel tempo i modi per garantirne la realizzazione.

Nel tracciare un bilancio degli anni ’90 e della cosiddetta Terza via, incarnata nel Regno Unito dal New Labour di Blair, Miliband sembra riconoscere alcuni limiti di quella impostazione, ma al tempo stesso ne rivendica la sostanziale correttezza, e afferma che non e possibile per il riformismo un ritomo all’impostazione precedente. Pur condividendo in diversi punti l’analisi di Miliband, cosi come la conclusione che le nuove sfide richiedano nuove idee e una nuova prospettiva, la linea che emerge dalla sua riflessione mi sembra poco convincente.

Credo infatti che una prospettiva di rinnovamento debba fare i conti in modo più profondo con alcune insufficienze della Terza via. Mi riferisco innanzitutto all’idea, praticata nei fatti quando non teorizzata, che di fronte ad uno sviluppo capitalistico la cui direzione si accettava fosse determinata dal mercato, il compito del riformismo dovesse limitarsi a curare le ferite, ad alleviare gli effetti sociali negativi. La rinuncia cioè all’ambizione di una vera politica economica. Corollario e stata l’idea che il welfare state rispondesse ad esigenze meramente equitative, e non avesse esso stesso una funzione di sostegno alla crescita e di correzione dei “fallimenti” e le insufficienze del mercato (da qui ad esempio l’enfasi esclusiva sulla lotta alla poverta e alla marginalità più che sulla diseguaglianza e la funzione assicurativa). Miliband sembra in certi passaggi riconoscere questo punto, ma una maggiore chiarezza sarebbe essenziale.

C’e poi un’ambiguita di fondo quando Miliband, preoccupato di smentire l’accostamento sinistra/statalismo, contrappone alla Big society di David Cameron l’idea di Good society e quindi accredita la società (o comunità) quale “terzo polo” positivo da contrapporre ai limiti di stato e mercato. Il richiamo alla società va certamente accolto e anzi rilanciato se con esso si vuole affermare la rilevanza del cosiddetto “capitale sociale”, ovvero quell’insieme di relazioni di fiducia e reciprocita che alimentano il senso di appartenenza e di comunanza e che sono necessarie per il buon funzionamento sia dello stato che del mercato. Meno convincente è invece l’idea, che spesso affiora negli interventi di qualche commentatore e cui forse non e estraneo lo stesso Miliband, che la societa possa da un lato essere portatrice di una superiorita morale da contrapporre alla immoralita della dimensione politica/statuale; dall’altro diventare essa fornitrice di servizi e benefici collettivi che si vorrebbe fossero sottratti all’intervento pubblico. Dal primo punto di vista, almeno guardando all’Italia, credo sia legittimo dubitare che il richiamo ad una supplenza della societa civile possa essere di aiuto rispetto all’urgenza di ricostruire l’autorevolezza delle istituzioni pubbliche, messe a dura prova dal quindicennio che abbiamo attraversato. Dal secondo punto di vista, non vorrei che il progetto fosse quello di scaricare sui “corpi intermedi”, a cominciare dalle strutture familiari per continuare con forme volontaristiche o associative, il peso di quella protezione dai grandi rischi della vita (malattia, inabilita, assistenza agli anziani) che è necessaria alla stessa crescita economica oltre che alla tenuta sociale. Va ricordato che nel corso del XX secolo la costruzione dello stato sociale ha rappresentato una risposta alla frammentazione e inadeguatezza delle preesistenti forme mutualistiche o volontarie. Solo un’aziorie pubblica può infatti garantire quei livelli di accesso universale che, innalzando salute istruzione e assistenza al rango di diritti, alimentano il senso di identificazione e la coesione sociale.

Con il suo conservatorismo compassionevole, cioe una versione “leggera” della propria tradizionale proposta politica, con aperture ai temi delle riforme sociali e dei diritti individuali, la destra ha finito per occupare lo spazio che per un certo tempo aveva segnato il successo della sinistra riformista: assecondare lo sviluppo dell’economia globalizzata senza ambire a governarlo, ma limitandosi al più a soccorrerne le vittime. Puo darsi che nel clima culturale degli anni ‘90, pur non mancando voci fuori del coro, strade diverse per i riformisti fossero effettivamente precluse. Credo pero che, di fronte alle sfide che ci aspettano negli armi a venire dopo il brusco risveglio della crisi del 2008, le forze europee di centrosinistra non possano permettersi di seguire i conservatori su questo stesso terreno, ma debbano puntare a riafferrnare il ruolo di indirizzo della politica economica, e a rimettere al centro temi quali la diseguaglianza e i beni collettivi. Cio e compatibile con una ridefinizione anche coraggiosa dei modi dell’azione pubblica, ma quello che l’Europa non puo permettersi e um riformismo che sia, su questo tema cruciale, culturalmente subalterno. Del resto, come recentemente affermato dai leader progressisti europei riuniti ad Atene, «solo i ricchi possono permettersi uno stato povero».