La recente manifestazione dei precari ha riacceso i riflettori sulla questione dei contratti di lavoro. L’articolo di Pietro Ichino, Luca di Montezemolo e Nicola Rossi sul Corriere e il successivo endorsement di Gianfranco Fini hanno rilanciato in modo trasversale la proposta di un “contratto unico”.

L’aspetto controverso di tale proposta è l’idea che per aumentare le tutele dei lavoratori precari sia necessario ridurre quelle previste per il lavoro a tempo indeterminato. Viene cioè proposto una sorta di scambio, per cui la generalizzazione del contratto a tempo indeterminato verrebbe ottenuta intervenendo sulla tutela dal licenziamento senza giusta causa (disciplinata dall’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori) per l’insieme dei lavoratori dipendenti. L’efficacia della proposta deriva dall’assonanza con quel “meno ai padri e più ai figli” che evoca l’idea di una redistribuzione e quindi di solidarietà (richiesta alla generazione dei padri) e insieme di rivolta generazionale. Da qui l’insistenza sulla contrapposizione tra i padri ultra-tutelati e i figli vittime di una sorta di apartheid.

Ad evidenziare quanto sia equivoca la rappresentazione del problema come un conflitto distributivo basterebbe forse richiamare il fatto che, se parliamo di regolazione e vincoli, non c’è alcuna ragione convincente per ipotizzare una reale rivalità tra chi ne è soggetto e chi non lo è. L’analogia con una risorsa disponibile in quantità limitata è fuorviante, così come lo sarebbe affermare che una maggiore tutela urbanistica delle perifierie è possibile solo eliminando i vincoli nel centro storico; o che per ridurre il limite di velocità in autostrada è necessario aumentarlo nelle strade statali. La domanda che dobbiamo porci è un’altra: se una certa regolazione sia funzionale o no agli obiettivi che si pone.

In questo caso, dobbiamo anche chiederci quali siano gli obiettivi. Il sospetto è che nella richiesta “meno diritti ai padri, più diritti ai figli” ciò che veramente sta a cuore sia il primo dei due termini: a far problema non sarebbe cioè la precarietà di chi è “fuori”, bensì le tutele di chi sta “dentro”, prima fra tutte quella relativa ai costi di interruzione del rapporto di lavoro. È una tesi che ci viene riproposta da almeno un ventennio: il freno alla crescita dell’Italia e dell’Europa sarebbe l’eccesso di regolamentazione del mercato del lavoro. Solo rendendo più fluido tale mercato, aumentandone la concorrenzialità, favorendo la mobilità dei lavoratori da un impiego all’altro, o dalla condizione di impiego a quella di disoccupazione e viceversa, è possibile rendere dinamico il sistema, aumentare la produttività e rendere le nostre imprese competitive sui mercati internazionali.

Benché popolare anche in ambito accademico per la sua coerenza con una certa visione del mercato del lavoro, la tesi è debole sul piano dell’evidenza empirica; l’argomento principale a sostegno è stato per anni il confronto tra la performance dei paesi supposti “rigidi” q eulla delle economie caratterizzate da mercati del lavoro meno regolamentati: gli Usa ma anche, all’occorrenza, Spagna e Irlanda. Tutto ciò prima che tali paesi fossero investiti, non a caso più duramente degli altri, dalla recente crisi.

Che lo si dichiari o no, dovrebbe essere ovvio che il principale effetto di una riduzione delle tutele ai dipendenti delle imprese sopra i 15 dipendenti, quelle più sindacalizzate, sarebbe il mutamento della forza contrattuale nell’ambito delle relazioni industriali, la riduzione del peso del sindacato e della contrattazione collettiva, e quindi una probabile riduzione del costo del lavoro via riduzione delle retribuzioni, oltre che un aumento dei differenziali retributivi e quindi della diseguaglianza. Non ci vuole molta malizia per leggere proprio questo nell’affermazione che una riforma strutturale del mercato del lavoro porterebbe ad aumenti di competitività. All’opposto dello slogan meno ai patri e più ai figli, l’effetto prevedibile dell’indebolimento dei padri sarebbe insomma un arretramento complessivo delle condizioni (economiche e non solo) di lavoro.

È proprio in nome della produttività e della crescita che dovremmo rigettare ricette improntate ad un’esasperazione della mobilità e della “liquidità” del lavoro. LA produttività del lavoro è principalmente determinata da investimenti in capitale fisico e umano; se il lavoro produttivo richiede investimento sia da parte del lavoratore che dell’impresa, esso non può avvenire in un contesto di precarietà. Ciò che serve è al contrario la stabilità della relazione di lavoro (un punto che no sfugge a Ichino & C, visto che quando citano il governatore Draghi riconoscono che la precarietà “indebolisce l’accumulazione di capitale umano specifico, con effetti alla lunga negativi su produttività e profittabilita”). Questo vale in particolare in quei paesi che, come l’Italia, devono contare primariamente sull’innovazione di prodotto e processo che si realizza all’interno dell’impresa. La ricerca di relazioni stabili tra impresa e lavoratori potrebbe semmai spingere a puntare verso forme di coinvolgimento di questi ultimi nella gestione, proprio il contrario dell’aumento della mobilità del lavoro. D’altra parte, il paese che da qualche tempo in qua viene citato ad esempio, la Germania, mantiene tuttora il suo modello a basso turnover del lavoro, e ha puntato invece sulla “flessibilità interna”, che è cosa ben diversa da ciò che viene proposto dai liberalizzatori nostrani.

Che il vero collo di bottiglia non siano le norme che favoriscono la flessibilità in entrata e uscita lo dimostra d’altronde il fatto che il massimo ricorso a forme di contratti atipici si ha per le imprese con meno di 9 dipendenti, alle quali non si applica il famigerato articolo 18. Vale a dire che tra i motivi dell’ampio ricorso al precariato il principale non sembra essere la richiesta di maggiore flessibilità in uscita. Molto più rilevante sembra essere la presenza di un vero e proprio incentivo fiscale al ricorso al lavoro precario, che attualmente paga contributi significativamente inferiori rispetto al lavoro a tempo indeterminato. Colpisce dunque nel segno la proposta avanzata dal Pd che prevede, oltre ad una significativa riduzione della varietà di forme contrattuali atipiche, un riallineamente dei contributi ad un livello intermedio che sia lo stesso per tutte le tipologie contrattuali. L’obiettivo è quello di indurre le imprese a ricorrere alla flessibilità in entrata/uscita solo quando c’è un’effettiva necessità organizzativa, e non come forma di elusione contributiva.

Nel dibattito fuori e dentro il Pd la differenza è in fondo qui: tra chi pensa che il livello di flessibilità raggiunto nel nostro mercato del lavoro sia un’acquisizione tutto sommato positiva, che va certo regolarizzata ma pur sempre accettata come ineluttabile, e chi ritiene che con la flessibilità si sia andati ben più in là di quanto fosse auspicabile e coerente con il modello di sviluppo adeguato al nostro paese, e che sia urgente, preliminarmente a qualsiasi revisione del diritto del lavoro, riportare il fenomeno del lavoro precario a una dimensione fisiologica.