Con il venerdì nero dei titoli bancari e di debito pubblico italiani hanno preso vita quei timori che abbiamo cercato di esorcizzare nei mesi scorsi. Forte è la consapevolezza di una possibile accelerazione degli eventi sul piano sia economico che politico.

Il quadro ha diversi protagonisti. Innanzitutto i mercati finanziari. Da essi dipendiamo per rifinanziare il debito pubblico, e delle loro reazioni dobbiamo dunque tenere conto; mai in dieci anni il differenziale tra i tassi dei titoli del debito pubblico italiani e quelli tedeschi è stato così elevato. Oltre ai cosiddetti fondamentali, cioè alle condizioni effettive della nostra economia e della finanza pubblica, pesa il gioco delle aspettative reciproche degli operatori. Ci vuole poco per innescare processi cumulativi: non c’è bisogno di invocare oscuri disegni, basta che le aspettative di movimenti speculativi convergano per determinare gli effetti previsti.

C’è chi giustamente invoca in queste ore interventi che correggano un eccesso di lassismo nelle regole; ma è chiaro che l’unico modo efficace per disinnescare il rischio nel medio termin è quello di ristabilire la fiducia nella capacità del Paese di mantenere fede agli impegni.

Il secondo protagonista è dunque il governo. L’opposizione e gran parte dei commentatori lo danno politicamente finito ormai da mesi. Incapace di definire una direzione di marcia, distratto e condizionato dagli interessi privati del leader, segnato da conflitti e contraddizioni interne che rendono attraente una scommessa sulla sua scarsa durata o sul rischio che populismo e demagogia prendano il sopravvento. Un governo che non riesce a passare la mano, e il cui capo rende politicamente impraticabile un’iniziativa bipartisan.

L’altro protagonista sul versante della politica economica è l’Europa. Per il nostro paese è stata spesso un’ancora, utile a supplire alla mancanza di credibilità del governo nazionale. La riforma della governance europea ha segnato una tappa importante in direzione di un maggiore coordinamento nelle politiche economiche. Tuttavia, non possono essere trascurati i limiti delle politiche proposte, riflesso di una carenza culturale dell’Europa a guida conservatrice. Si pensi all’attenzione quasi esclusiva agli aggregati di finanza pubblica; alla scelta di porre l’onere del riequilibrio nei flussi commerciali prevalentemente a carico dei Paesi ritenuti non virtuosi, gli anelli più deboli, aumentando il rischio di un loro default; alla scarsa attenzione all’aspetto della domanda aggregata, evidente nell’enfasi sugli interventi dal lato offerta, nella riproposizione di ricette di austerità o programmi di privatizzazione alla cui efficacia sono sempre in meno a credere; alla caparbia adesione a una visione asfittica della politica monetaria.

Ma il rischio di una crisi debitoria italiana è di un ordine di grandezza diverso da quello della Grecia: è qualcos che può mettere a rischio la sopravvivenza dell’Euro, e che forse spingerà le istituzioni europee, che non hanno certo brillato per tempestività e chiarezza di intenti, ad adottare misure di intervento più convincenti di quanto è stato messo in campo finora rispetto alla Grecia.

Da ultimo, quale protagonista, vi è l’opposizione. Non si può escludere che l’emergenza costringa a sostenere un governo del presidente. In altri momenti, è stata questa la “via italiana” con cui si è risposto a un’insufficienza della politica. Ma è lecito domandarsi se tale governo sarebbe in grado di dare quella prospettiva chiara di politica economica che sola potrebbe restituire al Paese la credibilità necessaria a porci al riparo da danni peggiori.

Comunque vada, di fronte a ciò che ci aspetta e alle misure che si deciderà di assumere, non è eludibile la domanda: “Per fare cosa?”. Non è detto che il progetto più credibile sia necessariamente quello più drastico in termini di conti pubblici. L’urgenza del momento potrebbe dare spazio a tesi di chi vede l’unica via d’uscita per l’Italia nell’adozione di politiche di tagli draconiani, ovvero di riduzione della spesa sociale o di beni essenziali. Un’idea che è figlia della convinzione, che ormai dovremmo esserci lasciati alle spalle, che l’economia possa prosperare per effetto di un mero arretramento del pubblico. Nella necessità di ridurre il rapporto tra debito e produzione, intervenire sul primo termine dimenticando il secondo può produrre effetti peggiorativi sulla situazione generale.

La priorità va invece data alla crescita. Attraverso politiche che promuovano il lavoor femminile e quello giovanile. Attraverso interventi di politica industriale che valorizzino la vocazione produttiva del paese. Attraverso riforme, anche fiscali, che promuovano la capitalizzazione delle imprese e l’investimento. Attraverso il sostegno alla domanda, che è al tempo stesso garanzia di equità e di coesione sociale, attraverso una riqualificazione del nostro sistema di welfare.

Insomma, un programma di riforme e di investimenti, realizzato da un governo politicamente forte, che possa fissare obiettivi e assumersi in modo credibile l’impegno di rispettarli. E che possa rimettere l’Italia al centro del processo di costruzione europea, perché è chiaro che nessuna possibilità di uscita da questa situazione è pensabile se non entro un quadro di obiettivi e politiche condivise a livello comunitario.