Le dimissioni dell’economista tedesco Jurgen Stark dal comitato esecutivo della Banca centrale europea, a seguito di chiare divergenze tra la Bundesbank e la stessa Bce sulla linea da tenere rispetto alla crisi dei debiti sovrani, ci fa capire che siamo ormai entrati nel vivo di una partita che va ben oltre ciò che accade a Roma, ma riguarda ormai il futuro dell’Euro. È chiaro, infatti, che Italia e Spagna, se anche intervenissero ulteriormente sui conti pubblici, possono fare ben poco per ristabilire la fiducia dei mercati. Il motivo è duplice. Da un lato si è innescato il classico circolo vizioso in cui il pessimismo dei mercati determina una difficoltà di approvvigionamento di capitali che a sua volta aumenta il pessimismo; per modificare tale situazione sarebbe necessaria una potenza di fuoco ben maggiore di quella di cui possono disporre i singoli paesi.

Un intervento a livello europeo, come l’annuncio di un sostegno sistematico dei titoli italiani e spagnoli da parte della Bce, riporterebbe gli spread a livello fisiologico, e aumenterebbe la percezione di solvibilità dei paesi in difficoltà ; come sempre, a maggiore forza e credibilità dell’annuncio corrisponderebbe una minore necessità di ricorrere effettivamente ad acquisti sui mercati, e con tutta probabilità un costo ben minore di quello che si sta sostenendo adesso con interventi incerti e intermittenti. Ma, com’è noto, soluzioni in tal senso vedono al momento la netta opposizione della Bundesbank e del governo tedesco. Il secondo motivo ha a che vedere con un aspetto del problema che l’attenzione esclusiva ai conti pubblici porta spesso a trascurare: i persistenti squilibri nella bilancia commerciale; a dirla tutta, è il disavanzo commerciale più che la situazione della finanza pubblica il tratto unificante dei paesi che sono stati sotto attacco in questi mesi (i cosiddetti Pigs). L’emergere di tali squilibri preesiste alla crisi, e in parte riflette l’insufficienza della costruzione istituzionale della moneta unica.

L’avvio dell’Euro fu un atto di coraggio delle elites europee, ma avvenne sull’onda di una visione troppo ottimistica che riteneva sufficiente a garantire l’equilibrio un rigido impegno alla stabilità monetaria unito ad una qualche controllo deiconti pubblici. Al resto avrebbero pensato i mercati. Le cose sono andate diversamente e le conseguenze le vediamo nei concitati avvenimenti di queste settimane. Il persistere di squilibri commerciali e divari di competitività, forse ancor più della dimensione stessa del debito, contribuisce ad alimentare tra gli investitori finanziari l’aspettativa che prima o poi i paesi “deboli” siano lasciati al loro destino, costretti ad abbandonare l’Euro. L’uscita dall’Euro avrebbe infatti per chi investe nei titoli dei paesi interessati effetti equivalenti a quelli di un default parziale, visto che il debito verrebbe denominato in una nuova valuta deprezzata. Vale quanto già detto: solo una decisa azione a livello europeo che mostri la volontà di difendere l’Euro ad ogni costo potrebbe dissipare i dubbi sulla possibilità di un esito di questo tipo e quindi ridurre la pressione sui nostri titoli di Stato.

Il risanamento dei conti pubblici è dunque solo un aspetto del problema; un elemento non meno urgente consiste nel concentrare i propri sforzi verso quegli interventi che possono accrescere la produttività (in primo luogo maggiori investimenti in capitale fisico e umano) e per questa via migliorare la posizione competitiva del paese. Ma, anche su questo fronte, non è pensabile che a sostenere lo sforzo di riallineamento della competitività siano soltanto i paesi in disavanzo, magari attraverso riduzioni nei salari: tale strada non farebbe che aggravare la già difficile congiuntura deprimendo ulteriormente la domanda. Nell’ambito di un’azione concertata a livello europeo, ben più efficacia avrebbe semmai un aumento dei salari nei paesi in avanzo, accompagnato dal via libera ad una politica monetaria meno rigida. Si tratta di accettare l’abbandono di alcuni totem, quali il rigido controllo dell’inflazione, e capire che l’alternativa è senz’altro peggiore: neppure la Germania può sottovalutare i costi di una pesante recessione nei paesi che costituiscono lo sbocco per buona parte delle sue merci, con la probabile fine dell’Euro e ciò che ne seguirebbe per tutte le nazioni del continente.