Il caso Europa è al centro della riunione dei ministri economici del G20. Il problema dei debiti sovrani dei Paesi “deboli” dell’eurozona, con in primo piano il rischio di default della Grecia ma anche la preoccupante situazione di Italia e Spagna, si intreccia con quello della tenuta del sistema bancario nell’area e il rischio di una nuova recessione globale. La preoccupazione è palpabile: da più parti e con sempre maggiore insistenza viene chiesto ai governanti europei di agire con determinazione per scongiurare rischi più gravi e rimettere l’economia su un binario di crescita, attuando le necessarie politiche espansive.

Questa attenzione alla crescita è un dato incoraggiante rispetto ad un orientamento che sembrava fino a poco tempo fa prevalente tra i commentatori e i principali decisori politici del nostro continente. Ci riferiamo all’erronea convinzione che la questione da risolvere fosse principalmente relativa ai saldi di finanza pubblica, da cui l’atteggiamento quasi punitivo verso i Paesi in difficoltà, “colpevoli” perché incapaci di tenere sotto controllo i propri bilanci. Si tende troppo spesso a dimenticare che, tolto al più il caso della Grecia, non è dai conti pubblici che origina la crisi che stiamo vivendo. Se consideriamo il deficit di bilancio pubblico nel periodo 2000-2007, vediamo che la performance italiana (deficit medio 2,9% del Pil) è molto vicina a quella francese (2,7%) e tedesca (2,2%); Spagna e Irlanda mostrano addirittura nel periodo pre-crisi un avanzo di bilancio. La Spagna aveva un livello di debito di poco superiore al 40% del Pil, l’Irlanda inferiore al 30%: è stata la necessità di rispondere ad una crisi che ha avuto origine nei mercati finanziari privati che ha portato tali debiti a livelli tali da determinare l’attuale rischio di insolvenza. Se la previsione di una maggiore disciplina fiscale è necessaria in vista dell’adozione di strumenti comuni di politica fiscale o anche di un abbandono dell’ortodossia monetarista da parte della Bce, non è dunque nel rigore di bilancio, e magari in ulteriori ricette di austerità, che va trovata la via d’uscita dall’impasse attuale. Anche nel caso dell’Italia, è solo attraverso la crescita e la rimozione delle cause all’origine della crisi che è possibile aggredire in modo efficace il problema della sostenibilità del debito.

L’analisi della crisi in Europa deve partire dal ruolo giocato da altri squilibri, in primo luogo quelli relativi alla competitività e alla bilancia dei pagamenti tra centro e periferia del continente. In seguito all’adozione della moneta unica, ingenti flussi di capitale si sono mossi verso i Paesi periferici; un caso emblematico è quello della Spagna, dove i capitali hanno finanziato la bolla immobiliare e quindi i consumi locali: il sostegno che ne è derivato alla domanda ha da un lato sostenuto la domanda di beni importati dai paesi più competitivi (in pratica, i capitali tedeschi hanno finanziato l’acquisto delle merci tedesche a debito), senza riuscire a migliorarne la competitività e anzi peggiorandola per effetto dell’inflazione. D’altra parte, politiche di contenimento dei salari al di sotto della dinamica della produttività attuate in Germania contribuivano non poco all’accentuazione degli squilibri. Rispetto a tali squilibri, l’architettura messa in piedi quando si decide il varo dell’euro non prevedeva correttivi; si confidava nella capacità autoregolativa del mercato. Una carenza che andrà affrontata nella rinnovata architettura della moneta unica.

Ma riconoscere che la crisi europea non è la somma di un certo numero di crisi individuali dei Paesi più esposti, che ha un carattere di sistema e affonda le sue radici anche nelle carenze del disegno istituzionale, è importante anche per affrontare correttamente l’emergenza. Non è infatti pensabile immaginare che il necessario recupero di competitività avvenga attraverso la caduta di salari e prezzi nei Paesi in disavanzo, come vorrebbe una certa ortodossia economica che trova adepti anche nelle istituzioni comunitarie. Sappiamo bene che questa sarebbe la via più sicura per condannare tali Paesi, e di riflesso l’intera economia europea, ad una pesante recessione. I necessari interventi di rilancio della produttività nei Paesi periferici, le riforme strutturali (su cui avremo modo di tornare in un prossimo intervento) richiedono quale condizione l’avvio di un ciclo di politiche espansive a livello internazionale: politiche fiscali nei Paesi in cui la situazione debitoria lo consente; politiche monetarie attraverso un mutato indirizzo della banca centrale europea. Solo così se ne potrà uscire.