Il compito del centrosinistra in questo momento non è facile. Deve essere europeista senza rinunciare ad esercitare un’azione di critica e di innovazione nei confronti dell’orientamento oggi prevalente in Europa. Deve riaffermare la propria tradizione di attenzione al rigore e alla credibilità. E allo stesso tempo operare perché l’Europa abbandoni quei dogmatismi che impediscono interventi adeguati alla crisi e inverta la rotta rispetto all’attuale pericolosa linea di austerità.

Stati Uniti e Regno Unito hanno messo al centro della propria azione l’urgenza di evitare una nuova recessione, e stanno usando a mani basse gli strumenti classici di rilancio della domanda, politica monetarie e politica fiscale espansiva. Per la zona euro il problema riguarda principalmente gli squilibri interni tra i Paesi membri, e sarebbe facilmente risolvibile adottando un approccio cooperativo. Le risorse per una spinta espansiva per uscire dalla crisi non mancherebbero (con gli interessi così bassi un programma di investimenti pubblici genererebbe rapidamente le risorse per ripagarsi).

Ma l’Europa è debole come entità politica e fiscale. Ha in comune la moneta unica, che ci ha dato dei vantaggi (sfruttati, va detto, da alcuni Paesi meglio che da altri), ma ha anche aumentato i rischi connessi agli squilibri, privando i singoli Paesi dei necessari strumenti di intervento. Niente che non fosse prevedibile; e niente che non sia superabile sostituendo alla retorica della contrapposizione tra Paesi “virtuosi” e “irresponsabili” una maggiore consapevolezza dell’interdipendenza economica e del fatto che a questo punto si cade o ci si rialza insieme.

Bene ha fatto dunque il gruppo dei partiti socialisti e democratici al Parlamento europeo a proporre una linea di azione alternativa alla «ricerca ossessiva dell’austerità fiscale» propugnata dai governi conservatori. Un’azione basata su: investimenti e politiche per occupazione; varo degli eurobonds; creazione di un bilancio europeo a sostegno della crescita. E bene fa il Pd a collocarsi pienamente all’interno di tale iniziativa, e a sottolineare che il successo di un’azione riformatrice dipende anche dall’avvio di una fase espansiva a livello internazionale.

Le riforme condizionate dall’esigenza di far cassa non sono quasi mai buone riforme. L’Italia ha bisogno di aumentare la produttività, realizzare investimenti, deve migliorare la sua dotazione di infrastrutture, di tecnologia, di capitale umano, deve intervenire sulla qualità della sua pubblica amministrazione. È ingenuo pensare che la crescita arrivi da un’ulteriore flessibilizzazione del mercato del lavoro, da affrettate privatizzazione dei servizi pubblici o da tagli lineari alla spesa pubblica. Sappiamo, per esperienza, che la flessibilità senza risorse per mettere in piedi un solido (e costoso) sistema di ammortizzatori finisce per produrre solo precarizzazione, penalizzando la produttività.

Anche la lettera della Bce andrebbe collocata nella giusta prospettiva: è una lettera che ha per interlocutore un governo di centrodestra, richiamato agli impegni formalmente o informalmente presi; una lettera “datata”, che risale ad un momento in cui tutta l’attenzione era posta agli aggiustamenti di bilancio, mentre nei due mesi successivi è risultato sempre più chiaro come il problema fossero piuttosto le prospettive di crescita. È infine una lettera di un organo tecnico che ha quale preoccupazione centrale quella della stabilità dei mercati finanziari. Non sorprende che possa farsene scudo chi, avendo scarsa fiducia nella politica, è convinto che solo da una qualche delega ad un soggetto “tecnico” possano giungere le riforme. Meno comprensibile è che l’adesione a quei contenuti sia presa come misura del grado di riformismo o magari di europeismo di un partito popolare e democratico.

Agli amici che sulle pagine di Europa hanno mostrato fastidio per un Pd capace di esprimere una linea autonoma rispetto a tali indicazioni, chiediamo se la loro obiezione si spinge fino a suggerire di smarcarsi dagli altri partiti progressisti e riformisti europei; chiediamo se anch’essi auspicano una revisione dell’architettura europea o sono invece per la sostanziale restaurazione del modello pre-crisi, emendato da più vincoli ai governi e meno ai privati; in questo caso, vorremmo capire in cosa tale modello si differenzi dalla proposta conservatrice.

Per parte nostra, crediamo che essere europeisti e riformisti in questa fase storica sia adoperarsi perché la crisi non diventi la giustificazione dello smantellamento di quel modello sociale europeo che è condizione della qualità della vita nel nostro continente; e perché i costi del risanamento non siano ripartiti in modo tale da erodere i legami di coesione e solidarietà tra Paesi, un processo che purtroppo è già pericolosamente in atto e che porterebbe, esso sì, alla fine di ogni prospettiva di integrazione.