Quella trascorsa, iniziata con l’annuncio del referendum sul piano di risanamento imposto alla Grecia, è stata una settimana di ansia e passione per l’Europa. Anche se la pressione internazionale ha portato a un ritiro dell’iniziativa, dubitiamo che sia finita qui, perché è stato messo a nudo un punto debole dell’attuale strategia di soluzione della crisi.

Si tratta del dilemma profondo tra adesione agli impegni assunti da un governo nei confronti degli investitori e consenso democratico. Non è certo una novità. Il dilemma si è anzi presentato ripetutamente nello scorso secolo. Soluzioni magari astrattamente corrette possono risultare politicamente e socialmente insostenibili, e nel conflitto tra gli obblighi di un governo verso i creditori e il patto sociale con gli elettori, la storia ci insegna che in una democrazia è quasi sempre quest’ultimo a prevalere.

Di fronte a tale dilemma, non stupisce che i creditori spingano per forme più o meno esplicite di commissariamento dei Paesi debitori, a garanzia del rispetto degli obblighi contratti. Una soluzione che nel caso dell’Italia trova appoggio in chi è convinto che solo uno shock esterno capace di determinare un cambiamento profondo nel patto sociale possa farci uscire dalla crisi. È la tesi di quanti, riponendo scarsa fiducia nei meccanismi democratici, ritengono che solo un governo tecnico, che non risponda agli elettori, possa affrontare l’impopolarità delle riforme ritenute necessarie. A parte l’ovvia obiezione verso una soluzione che comporta un arretramento della democrazia proprio laddove si impongono scelte cruciali, e a parte la discutibile efficacia (o addirittura la dannosità) di molte delle riforme proposte, è facile prevedere che anni di sacrifici in nome della permanenza nell’euro avrebbero quale esito più probabile una progressiva erosione del consenso verso l’Europa.

Nel dilemma tra sovranità e integrazione economica, potrebbe persino guadagnare consensi una soluzione di segno opposto: arretrare rispetto al progetto di integrazione europea rivendicando la propria sovranità e recuperando il controllo sulla politica monetaria, cominciando con il mettere in discussione la moneta unica. Una strada dai risvolti traumatici nell’immediato, tanto più se realizzata unilateralmente, ma che forse una prolungata stagnazione potrebbe rendere accettabile da un punto di vista puramente economico. Sarebbe la negazione del progetto politico di un’Europa pacifica e integrata e, per il nostro Paese, la rinuncia ad un ancoraggio che ci ha dato prosperità e rispetto al quale dal dopoguerra definiamo la nostra identità nazionale. Un autentico salto nel buio.

Entrambe queste prospettive sono al momento possibili. Si impone pertanto la ricerca di una terza strada, che trovi un nuovo compromesso tra sovranità, democrazia e integrazione nel rilancio del progetto europeo. Tale progetto è stato messo a dura prova innanzitutto dalla scelta di far pesare sugli Stati nazionali il contraccolpo degli eccessi della finanza e degli squilibri generatisi nello scorso decennio. Esso è tuttora minacciato della retorica corrente, che trascura l’origine sistemica dei rischi che hanno messo in ginocchio il continente e insiste sulla fuorviante contrapposizione tra Paesi virtuosi e Paesi indisciplinati, ribadendo il principio della responsabilità nazionale rispetto agli effetti della crisi. Il nuovo compromesso deve prevedere, a livello di Unione, non solo il rafforzamento del controllo democratico delle decisioni, ma anche una profonda revisione degli strumenti di governo dell’economia.

L’introduzione di vincoli sui bilanci pubblici, su cui si è concentrata finora la discussione, è solo un aspetto del problema. Servono un sistema di soccorso reciproco rispetto agli shock, meccanismi correttivi degli squilibri commerciali (che operino sia dal lato dei Paesi in disavanzo che da quelli in avanzo), una modifica del comportamento della banca centrale, una diversa regolazione della finanza, politiche di investimento volte ad aumentare la competitività. Occorre infine riaffermare le ragioni dello stare assieme, che non si esauriscono nei vantaggi dalla libera circolazione di merci e fattori, ma devono mettere al centro l’impegno a rafforzare ed estendere un modello sociale in grado di garantire sicurezza e redistribuzione, che è il tratto più distintivo dell’Europa.

È un esito ancora lontano, ma la settimana che si è conclusa ci consegna anche un’immagine di speranza. È quella dei leader dei tre partiti progressisti dei tre maggiori paesi dell’Europa continentale, uniti a Roma, a San Giovanni, nel riaffermare la volontà di riprendere un progetto che le attuali leadership hanno portato sull’orlo del naufragio.