Tra i compiti assegnati a questo scorcio di legislatura, quello di modificare la legge elettorale riveste un ruolo non secondario. La legge elettorale è solo uno degli aspetti che caratterizzano il sistema politico, ma è un ingrediente essenziale per definire la direzione di uscita da questa fallimentare Seconda Repubblica.

A questo proposito, l’auspicio è che la discussione si liberi da un’ipoteca giuridico-politologica che ha spesso confinato il dibattito alla pura meccanica della competizione politica e della governabilità in senso astratto, e si allarghi a coinvolgere un’analisi più approfondita del nesso tra sistema politico e sistema economico e sociale. Insomma, la domanda sulle regole della rappresentanza politica dovrebbe essere iscritta nel tema più ampio della scelta del futuro del Paese dal punto di vista sociale ed economico, potremmo dire del «modello» di capitalismo. In questo senso sorprende quanto poco spazio abbia avuto finora nel dibattito italiano la riflessione, sviluppata in ambito internazionale tra gli studiosi di political economy, sul rapporto tra forme di rappresentanza e varietà di capitalismo (mi riferisco ad esempio alle analisi di Torben Iversen, dell’università di Harvard).

Molto in sintesi, questo filone di studi evidenzia come i sistemi capitalistici, lungi dal convergere verso un unico modello, si siano polarizzati in due «specie» di successo, quella delle economie liberali e quella delle economie coordinate di mercato. Esempio delle prime sono i Paesi anglosassoni, mentre alle seconde corrispondono le economie del centro e nord Europa. Ciascuno dei sistemi presenta un insieme di caratteristiche complementari nella struttura produttiva, nelle modalità di organizzazione degli interessi, nel rapporto tra finanza e industria, nelle relazioni sindacali, nel sistema di istruzione e, non ultimo, nel sistema di rappresentanza politica. L’idea di fondo è che i diversi capitalismi si distinguano per il tipo di competenze prevalenti nell’attività produttiva e per le istituzioni sviluppate a protezione delle stesse. Sintetizzando, i sistemi liberali di mercato tendono a sviluppare e ad impiegare competenze molto «liquide», puntando sulla flessibilità nell’impiego e adottando tecnologie che non necessitano di elevata specializzazione ai livelli bassi della scala delle competenze, potendo contare invece sul vantaggio dato dal primato nell’attività di ricerca di alto livello.

Sono economie che non richiedono forme forti di protezione degli investimenti in capitale umano, per cui sono caratterizzati da un più debole sistema di welfare, oltre che maggiore diseguaglianza nelle retribuzioni. Possono ben funzionare anche in assenza di un forte sistema di regolazione sociale, come quello proprio dei sistemi di democrazia competitiva. I sistemi a capitalismo coordinato, normalmente economie a larga base manifatturiera, sono invece caratterizzati da investimenti in capitale umano altamente «specifici», che possono svilupparsi solo in presenza di adeguate protezioni. Si pensi alla circostanza che in assenza di una prospettiva di impiego di lungo periodo, né l’impresa né il lavoratore avranno interesse a investire nella relazione. In questi sistemi, gli investimenti in capitale umano sia dell’impresa che del lavoratore trovano adeguato sostengo in una maggiore regolazione del mercato del lavoro, nell’ampio ricorso alla concertazione e nello sviluppo di generosi programmi di assicurazione pubblica. L’esito è una distribuzione molto egualitaria delle retribuzioni, cui si aggiungono un solido sistema di protezione sociale e un’elevata redistribuzione.

Il dato importante, a questo punto, è che i sistemi elettorali maggioritari sono prevalenti nelle economie liberali, mentre in quelle a capitalismo coordinato è prevalente l’adozione del sistema proporzionale. Il sistema proporzionale è infatti più adeguato a promuovere la rappresentanza degli interessi e spinge alla ricerca di soluzioni consensuali, laddove i sistemi maggioritari incoraggiano la competizione al centro e producono esiti meno redistributivi.

A questo proposito, guardando ai dati di 17 economie avanzate nel periodo dal 1945 al 1998, colpisce che i sistemi proporzionali hanno storicamente (e nettamente) favorito il successo elettorale delle coalizioni di centrosinistra, mentre nei sistemi maggioritari si sono più frequentemente affermati partiti di centrodestra. I sistemi proporzionali, oltre ad essere più compatibili con politiche di concertazione, sembrano incoraggiare infatti l’emergere di coalizioni tra partiti di centro e di sinistra, più propensi a investire risorse in sistemi di assicurazione sociale; nei sistemi maggioritari l’elettore di centro tende invece a favorire con il suo voto le forze conservatrici.

Tornando al nostro Paese e all’attualità, sarebbe auspicabile che le istituzioni della Terza Repubblica fossero pensate avendo chiaro a quale capitalismo vogliamo ispirarci. Dopo un ventennio in cui ha prevalso l’idea che ci fosse un unico modello vincente, quello anglosassone, e in cui si è ritenuto di puntare su flessibilità nel lavoro da una parte e perseguimento del modello di democrazia competitiva maggioritaria dall’altra, la nostra attenzione si volge nuovamente ai modelli centro e nordeuropei, più vicini a noi per vocazione produttiva e più attraenti quanto a coesione sociale. Sarebbe un esito insperato quanto augurabile se la fine di questa legislatura, con un governo che nasce nel segno della concertazione politica e sociale, potesse muovere i primi passi in questa direzione.