È difficile ricordare periodi in cui l’attenzione ai temi della politica economia sia stata pari a quella dei sei mesi appena trascorsi. L’accelerazioned degli eventi, mentre condannava via via all’obsolescenza molte analisi di comodo, imponeva una vigilanza costante. Riguardando a come si è sviluppato il dibattito, chi si è occupato di economia su questo giornale può rivendicare la validità della chiave di lettura offerta. Fin dal momento in cui il nostro paese si è trovato al centro della crisi, abbiamo fornito su queste pagine un’interpretazione che ha evitato letture semplicistiche o rassicuranti. Abbiamo cercato di porre attenzione al quadro internazionale, sottolineando il carattere «di sistema» della crisi. Ciò mentre buona parte dei media preferivano oscillare tra un antiberlusconismo di maniera, tutto concentrato sugli aspetti scandalistici e sul gossip, e una certa accondiscendenza verso le reali scelte di quel governo.

Mentre altri insistevano sulla necessità per l’Italia di salvarsi «da sola», abbiamo sottolineato che la crisi aveva una duplice dimensione, nazionale ed europea. Da un lato le debolezze strutturali della nostra economia, che affondano le radici anche nelle politiche dello scorso decennio. Dall’altro la consapevolezza che il caso italiano poteva e può essere compreso solo all’interno della più generale crisi di un sistema di regolazione dell’economia a livello mondiale ed europeo.

Abbiamo rigettato la contrapposizione tra paesi virtuosi e indisciplinati. Un’interpretazione di comodo, che nascondeva l’assenza di una chiara visione delle leadership europee sul modo per uscire dalla crisi e la scarsa consapevolezza sulle debolezze della stessa architettura dell’unione monetaria, che non era stata dotata di strumenti adeguati a correggere i suoi squilibri.

Abbiamo ripetuto fino alla noia che le convenzionali ricette di austerità, come quella imposta alla Grecia, avrebbero solo peggiorato la situazione, avrebbero generato una spirale recessiva; l’eccezionalità del momento richiede coraggiose ricette di rilancio della domanda, che in questo momento sono possibili solo a livello europeo. Eppure, quante critiche si sono levate quando abbiamo indicato nel segno restrittivo delle politiche indicate dalla Banca centrale europea un motivo di preoccupazione più che la soluzione al problema. A dire oggi queste cose, ripetute ormai pressoché da tutti i maggiori giornali del mondo e da numerosi leader politici di primo piano, si rischia di risultare banali.

Nel ragionare di politiche europee abbiamo assunto quello che ci sembra l’unico atteggiamento coerente con un europeismo maturo, non risparmiando alcune critiche quando necessario. Questo perchè crediamo che lo spazio europeo sia sempre più l’arena di confronto politico in cui si confrontano una destra e una sinistra e ove si gioca il nostro futuro. Qualcuno ha scambiato questa linea per anti-europeismo, pensando che l’unico modo di essere europeisti fosse il tradizionale, e un po’ provinciale, atteggiamento di chi si fa forza nel dibattito interno ripetendo che «lo chiede l’Europa», quasi esistesse una visione europea politicamente neutra. Se i fatti ci hanno dato ragione e il nostro punto di vista è ormai ampiamente condiviso lo diciamo senza troppa soddisfazione, visto che avremmo preferito che le cose fossero più semplici e i problemi meno seri di come ci apparivano. Avremmo preferito anche noi pensare che la semplice rimozione di Berlusconi si portasse via qualche ansia, ma sapevamo che tale passaggio era solo una condizione minima per ripartire.

Siamo ora alla vigilia di passaggi molto delicati. Nei prossimi giorni il governo Monti varerà una manovra che si preannuncia estremamente pesante. L’Italia farà la sua parte, e non sarà una parte facile, ma gli squilibri che sol all’origine della crisi non saranno risolti dall’austerità in Italia. Proprio per coerenza con quello che è stato l’approccio che abbiamo seguito finora, dobbiamo ribadire che ora tocca all’Europa. La riunione del consiglio europeo del 9 dicembre è considerata una sorta di ultima possibilità per l’euro. Lo scambio chiesto dalla Germania sembra essere quello di disciplina fiscale contro l’autorizzazione a interventi più decisi della Bce a sostegno dei titoli italiani e spagnoli. Questo va bene per l’emergenza.

Per il futuro, si parla di unione fiscale, una formula ancora da riempire. Non vorremmo che prevalesse l’idea che unione fiscale significa solo disciplina di bilancio. È questa la visione del governo tedesco, un misto di convenienza nazionale e incapacità di riconoscere la natura della crisi, dovuta non all’indisciplina dei governi nazionali ma all’assenza di strumenti correttivi comunitari. I vincoli ai bilanci nazionali, tra cui lo stesso pareggio di bilancio in via di approvazione nel nostro parlamento, rischiano di essere controproducenti se non accompagnati da una maggiore capacità di manovra a livello europeo. Ora più che mai è necessario preogettare un’Europa capace di attuare politiche di stabilizzazione, di crescita, sviluppo e coesione sociale.