Le ultime stime del centro studi di Confindustria parlano di una caduta del 1,6% del Pil per il 2012. Questa previsione poco incoraggiante (ma non inattesa) incorpora gli effetti recessivi della manovra appena varata dal governo, con buona pace di chi per anni ha sposato la tesi della contrazione fiscale espansiva. Cioè l’idea che un rapido riequilibrio del bilancio pubblico potesse avere effetti di stimolo all’economia. È inutile illudersi: è inevitabile che una restrizione fiscale, cioè più tasse e meno spesa pubblica, comporti una restrizione del livello di attività, del reddito, dei consumi, dell’occupazione.

La previsione avanzata (come del resto si ammette) pecca semmai di ottimismo, sia nel prevedere una crescita positiva già nel 2013 che nell’ipotizzare che la recessione abbia effetti limitati sul bilancio pubblico. Lo scenario prefigurato parte infatti dall’ipotesi che si realizzi una riduzione dei tassi di interesse (cioè un rientro rapido degli spread a livelli fisiologici) e che si sentano i primi segni di ripresa già nella seconda metà del 2012. La riduzione dei tassi di interesse è in effetti una condizione essenziale per scongiurare la prospettiva di un credit crunch, una contrazione del credito, con conseguenze pesanti per le nostre imprese.

Confindustria è molto esplicita nel dire che la crisi non è congiunturale, non è una fase passeggera, bensì strutturale, ed è in buona parte frutto di squilibri interni all’eurozona. Non solo gli squilibri di finanza pubblica, su cui per molto tempo si è concentrata l’attenzione, ma anche gli squilibri nei conti con l’estero e i divari di competitività tra Paesi. Nella drammaticità della situazione, conforta riscontrare una vicinanza con la diagnosi che proponiamo da mesi su queste pagine. Il rapporto di Confindustria si concentra sulla necessità di investimenti infrastrutturali e riforme sul lato offerta. Analisi condivisibile, ma temiamo che questi interventi non siano sufficienti da soli a superare la fase corrente e riattivare la crescita.

Con l’approvazione della manovra fiscale, l’Italia ha mostrato la propria determinazione, con interventi dolorosi, andando anche oltre quello che sarebbe un sentiero di rientro equilibrato in grado di contemperare consolidamento e obiettivi di crescita. Si trattava di una scelta in qualche modo obbligata, dati i vincoli internazionali. Dovrebbe essere tuttavia chiaro che tali interventi non sono sufficienti a riconquistare la fiducia degli investitori. La persistenza di livelli elevati negli spread (e questo nonostante un impegno non indifferente della Bce) ci fa pensare che ormai la determinante principale dell’orientamento degli investitori sia la tenuta complessiva dell’euro, che viene reputata incompatibile con l’attuale dinamica delle economie europee.

Fiducia e crescita torneranno solo con un radicale cambio di rotta. Purtroppo, come dimostrato anche dall’ultimo vertice, chi detiene la leadership politica nell’Unione sembra mancare di una visione convincente su come uscire da questa situazione. Al fondo di questa incapacità ci sono certamente interessi di corto respiro ed egoismi nazionali, ma anche i limiti di una certa rappresentazione della crisi: l’idea che il problema di fondo sia l’irresponsabilità dei singoli Paesi, e che quindi la soluzione sia nella riaffermazione di una più severa disciplina. Tale ricetta implica che il peso del riequilibrio sia sostenuto per intero dai Paesi in crisi, attraverso un recupero di competitività da ottenere attraverso una radicale riduzione della spesa pubblica e una caduta significativa di salari e prezzi (la cosiddetta svalutazione interna). Purtroppo, nella situazione attuale, la somma di politiche nazionali di austerità rischia di innescare una spirale recessiva che finirebbe per aggravare i problemi che si propone di risolvere. Un esito drammatico non solo dal punto di vista economico e sociale, ma anche, per le sue assonanze con un copione già sperimentato negli anni 1930, per la tenuta democratica di molti Paesi.

Il rapporto del centro studi Confindustria scommette, forse più per un atto di volontà che per convinzione, su uno sbocco positivo della crisi. Un tale sbocco non è affatto ovvio, dato il quadro politico corrente a livello europeo e data la riluttanza a mettere in campo, oltre alle necessarie riforme sul lato offerta, un rilancio complessivo della domanda a livello europeo.