C’è veramente necessità, oggi, in Italia, di riformare il mercato del lavoro modificando le norme sul licenziamento? È questa la soluzione per restituire prospettive ad una generazione che gode di scarse tutele ed è privata di una prospettiva di impiego stabile? Per anni la discussione degli economisti si è concentrata principalmente sulla flessibilità «in entrata».

Si diceva che l’adozione di contratti con garanzie ridotte avrebbe incoraggiato le imprese ad assumere, e avrebbe anzi favorito l’accesso all’impiego a tempo indeterminato. La realtà ha smentito questa previsione. La frammentazione delle forme contrattuali è andata ben oltre il ragionevole e viene giustamente vista come patologica. Una presa d’atto benvenuta. Occorre dunque intervenire operando una drastica riduzione delle forme contrattuali, che faccia sì che i contratti temporanei siano utilizzati soltanto nei casi in cui vi sia una fondata necessità economica (ad esempio: le attività stagionali). Occorre rendere il ricorso a tali forme contrattuali più costoso per compensare la minore stabilità. Occorre infine riformare gli ammortizzatori sociali, aumentando le tutele per chi perde il lavoro e in modo da incoraggiare la riqualificazione. Su interventi di questo tipo, il governo avrebbe certamente il sostegno compatto non solo dell’intero Partito democratico, ma dell’insieme delle forze di centrosinistra.

La questione che solleva tanta passione riguarda semmai un altro aspetto: la licenziabilità. Come è ben noto, la norma-simbolo da questo punto di vista è l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. Si sostiene da più parti che la semplificazione delle forme contrattuali dovrebbe avere quale contropartita l’abbandono di questa norma, sostituendo la tutela «reale» (la reintegrazione nel posto di lavoro, prevista per il licenziamento senza giusta causa nelle imprese con più di 15 dipendenti) con un risarcimento monetario. Una soluzione che, riducendo i costi del licenziamento per l’impresa, rappresenterebbe una sorta di contropartita alla riduzione di flessibilità «all’entrata» e al costo degli ammortizzatori sociali.

Le motivazioni economiche dietro a questo argomento non convincono. Per cominciare, sgombriamo il campo da una convinzione diffusa ma infondata: come dimostrato dalle ricerche empiriche più autorevoli, la cosiddetta flessibilità in uscita, la licenziabilità, non ha effetti significativi e duraturi sul livello di occupazione. In compenso, un mercato più flessibile comporta che i rischi connessi alle fluttuazioni economiche siano sopportati in misura maggiore dai lavoratori, una soluzione molto discutibile dal punto di vista dell’efficienza complessiva.

Nemmeno si può sostenere che l’articolo 18 sarebbe causa del così ampio ricorso a forme atipiche di impiego. Se le cose stessero in questo modo, dovremmo riscontrare un ridotto ricorso ai contratti a termine, e la prevalenza di assunzioni a tempo indeterminato, nelle imprese al di sotto dei 15 dipendenti. I dati dicono semmai il contrario. Ancora: se fosse vero che l’articolo 18 è un costo così rilevante, esso dovrebbe scoraggiare la crescita delle imprese prossime alla soglia dei 15 dipendenti; ma ricerche recenti mostrano che non vi sono effetti significativi di questo genere.

Non è ovvio nemmeno quali siano i benefici dal punto di vista dell’efficienza contrattuale. Come ci insegna l’analisi economica dei contratti, non esiste alcuna conclusione generale sulla superiorità del risarcimento monetario rispetto alla tutela tramite il diritto al reintegro. Molte analisi suggeriscono semmai come maggiore flessibilità si accompagni a minore produttività. Il motivo è chiaro: se il rapporto è meno stabile, sarà minore l’incentivo per le parti (sia l’impresa che il lavoratore) ad investire nella relazione. Ci chiediamo dunque in che modo gli interventi di cui si parla possano essere considerati politiche per la crescita, se non sulla base di un erroneo pregiudizio che considera ogni forma di regolamentazione fonte di inefficienza.

È forse proprio la difficoltà a motivare la revisione della disciplina della licenziabilità in termini di efficienza che spinge molti sostenitori del «contratto unico» a parlare di equità. La riforma del mercato del lavoro sarebbe motivata dalla necessità di superare il dualismo («apartheid») nel mercato del lavoro. È però curioso che si suggerisca, quale soluzione, che le tutele dell’articolo 18 continuino a valere per chi è già «dentro» e siano abolite per i nuovi assunti; con il risultato di certificare dal punto di vista giuridico una differenza di diritti tra generazioni, e di creare all’interno di ciascuna impresa due categorie di lavoratori, con diritti e tutele diverse. Un obiettivo auspicabile solo per chi voglia la disgregazione di ogni residuo di solidarietà tra uguali sul posto di lavoro.

Il sospetto è che il vero obiettivo non sia la flessibilità in sé, bensì forzare una modifica delle relazioni industriali. L’unico esito certo della modifica dell’articolo 18 sarebbe infatti quello di incidere sulla forza contrattuale dei lavoratori e dei sindacati (non a caso la norma interesserebbe solo le imprese più grandi, e non a caso l’articolo 18 è nello Statuto dei lavoratori, la norma che promuovere il ruolo del sindacato). Vediamo in filigrana il confronto tra due visioni diverse di società e di economia: chi riconosce il ruolo positivo della concertazione e dei «corpi intermedi» contro chi pensa che sindacati e associazioni di categoria siano solo ostacoli al corretto funzionamento della concorrenza. Una concorrenza in cui il lavoratore mobile, flessibile, è solo un individuo.