Il governo ha varato l’atteso decreto sulle liberalizzazioni, fonte di speranze e qualche timore. Anche senza prestar fede a certe stime e previsioni, francamente poco realistiche nel loro eccesso di ottimismo, c’è largo consenso sul fatto che una maggiore concorrenza nel settore dei servizi possa giovare alla nostra economia.La rimozione di barriere e vincoli non giustificabili da ragioni di interesse generale, favorendo l’ingresso di nuovi operatori e aumentando la pressione concorrenziale, può stimolare l’introduzione di formule produttive più avanzate, spingere all’aggregazione, alla crescita dimensionale e all’adozione di tecnologie innovative, dare opportunità a chi ha inventiva e voglia di rischiare.

Tutto ciò senza dimenticare che la crescita richiede anche altri ingredienti non meno strutturali: la riforma dell’apparato amministrativo (in particolare della giustizia civile), il contrasto alla criminalità organizzata che condiziona la vita economica in vaste aree del paese, il ripristino di condizioni minime di lealtà fiscale, l’accesso al credito.

Il decreto sembra intervenire con il bisturi più che con l’accetta (qualcuno forse ne resterà scontento). Parecchie novità, anche se per alcuni settori esse appaiono meno radicali di quanto annunciato. In molti casi più che di liberalizzazione si dovrebbe parlare di buona regolazione, ovvero di disposizioni a tutela dei consumatori, finalizzate ad aumentare la trasparenza; è questo il caso per gli interventi nel settore bancario e assicurativo. Si interviene sui costi dell’illegalità, come nel caso di innalzamento delle sanzioni per frodi nelle perizie che affligge ad esempio l’Rc auto.

Gli interventi di liberalizzazione vera e propria si concentrano in settori quali quello dei servizi professionali, delle farmacie, della distribuzione dei carburanti. Si punta all’aumento del numero degli operatori (così per notai, farmacie e per il tanto discusso caso dei taxi), sul contrasto a pratiche commerciali potenzialmente anticoncorrenziali (benzinai ma anche edicole). A onor del vero non tutti gli interventi convincono fino in fondo: resta ad esempio da dimostrare che l’abolizione dei minimi e massimi nelle prestazioni professionali sia effettivamente a garanzia dei consumatori e dei giovani professionisti. Così come ci lascia perplessi la creazione di una nuova forma societaria a costo zero: anche prescindendo dal rischio che possa diventare veicolo per forme di elusione fiscale, non ci sembra che il problema della nostra economia sia la difficoltà di creazione di ulteriori micro-imprese. Due interventi di rilievo riguardano i settori del gas e quello delle ferrovie, dove il governo sembra intenzionato a procedere con la separazione strutturale della rete ai fini di favorire la concorrenza. Qualcuno già lamenta un eccesso di cautela, ma questa è forse giustificabile a fronte della fretta eccessiva di esperienze passate.

Nell’incoraggiare questo approccio «avanti adagio con giudizio», due sono gli elementi che vorremmo ribadire. Il primo è che non sempre la regolamentazione del mercato ha ragioni protezionistiche. In alcuni casi essa risponde a necessità di tutela del consumatore (non sempre informato a sufficienza per trarre vantaggio dalla concorrenza) o di interessi collettivi, magari difficilmente quantificabili e quindi trascurati da molte analisi economiche. Si pensi ad esempio ai possibili effetti dalla rimozione di ogni vincolo alla distribuzione commerciale, con vantaggio per le grosse catene di distribuzione, per il tessuto urbano o per l’accesso da parte di certe categorie di consumatori.

La seconda questione riguarda il rischio che la liberalizzazione possa scaricarsi sul già troppo martoriato mercato del lavoro. Può essere accettabile che il piccolo esercizio a gestione familiare lasci il passo a strutture meglio organizzate, in grado di sfruttare una maggiore scala produttiva, di introdurre nuove tecnologie e quindi di creare occupazione. A patto che questo processo non avvenga alimentando l’area del lavoro sottopagato e precario. Ci sembra dunque corretto l’altolà posto dalla segreteria del Pd rispetto alla possibilità, per i nuovi entranti in settori liberalizzati, di derogare ai contratti nazionali. La concorrenza che vogliamo, quella buona per il paese, deve puntare all’innovazione in campo tecnologico e organizzativo, all’inventiva, non alla compressione dei diritti e delle retribuzioni.