C’è da prevedere che susciterà interesse e dibattito il rapporto dell’Ocse sulla crescita, reso pubblico ieri. I rapporti Ocse rappresentano da sempre per chi si occupa di economia una ricca fonte di informazioni, dati, statistiche, che costituiscono la base per larga parte delle ricerche di centri studi, istituzioni accademiche, enti governativi, e questo non fa eccezione.

Il rapporto fa il punto sulle cosiddette riforme strutturali attuate nei Paesi membri (i Paesi più economicamente sviluppati) e nelle principali economie emergenti a partire dalla crisi finanziaria, monitorandone lo stato di realizzazione e avanzando suggerimenti e indicazioni. Come è noto, le riforme strutturali sono quegli interventi «dal lato offerta», ovvero riguardanti le regole di funzionamento dei mercati e le dotazioni di fattori produttivi, la cui realizzazione si ritiene possa aumentare l’efficienza dell’economia e generare una crescita duratura nel medio-lungo periodo. Vengono prese in considerazioni in particolare le politiche di riforma del sistema fiscale; le riforme nel campo del welfare e della protezione nel mercato del lavoro (inclusa la regolazione di licenziamenti e le cosiddette politiche attive del lavoro); le politiche miranti ad aumentare la competitività nei mercati dei prodotti e le riforme della Pubblica amministrazione.

Il rapporto registra, senza che questo desti sorpresa, un’accelerazione dell’azione di riforma nel periodo successivo alla crisi, specialmente nelle economie più deboli e quelle più duramente colpite. Per quanto riguarda l’Italia, vengono indicati i progressi fatti rispetto alle raccomandazioni avanzate nei rapporti precedenti (la «serie» è stata avviata nel 2005). Si elencano dunque i principali interventi del governo in corso (e in alcuni casi del precedente) in tema di riduzione delle barriere regolatorie (commercio al dettaglio e professioni), nel settore dell’istruzione universitaria (riforma della governance degli atenei), in campo fiscale; visto che i passaggi parlamentari non sono conclusi, c’è da augurarsi che non sia smentito l’ottimismo insito nella scelta di elencare alcuni di questi provvedimenti tra le azioni già intraprese.

D’altra parte c’è da scommettere che verrà evidenziata per fini di dibattito politico interno l’inclusione, tra le priorità chiave da perseguire, della privatizzazione dei servizi locali (il rapporto lamenta lo stop nella privatizzazione dei servizi idrici), della riduzione delle protezioni del lavoro a tempo indeterminato, dell’aumento delle diseguaglianze salariali da ottenersi attraverso un maggiore decentramento della contrattazione. Indicazioni di questo genere non sono certo una novità per chi ha letto analoghi rapporti negli anni passati. Né ci si può aspettare che in un rapporto di questo genere l’Ocse si discosti da quello che è stato il consenso prevalente per due decenni sulle virtù di privatizzazioni e flessibilità del lavoro. Con quali cautele debbano essere presi i suggerimenti frutto di quel consenso è noto, visto che la stessa Ocse ancora nel 2010 era tra coloro che chiedevano a gran voce per l’Europa austerità fiscale e politiche monetarie restrittive.

Ci auguriamo dunque che le raccomandazioni vengano poste dai commentatori nella giusta prospettiva, tenendo conto ad esempio che si tratta di conclusioni basate su indicatori statistici sviluppati per l’analisi comparata di un insieme ampio di Paesi, che hanno un grado di dettaglio necessariamente limitato. Per capirci, sarebbe una forzatura pretendere di trarre da questo rapporto conclusioni decisive su come debba essere migliorato l’articolo 18. Suscita semmai interesse un paio di passaggi che testimoniano l’attenzione dei ricercatori dell’Ocse alla particolare fase economica. Si cerca di rispondere ad esempio alla preoccupazione che le riforme discusse possano avere effetti recessivi nel breve periodo. A questo proposito il rapporto, pur fornendo evidenza empirica a sostegno di un cauto ottimismo, sottolinea che alcuni interventi, in particolare quelli relative alla riduzione della protezione del lavoro, sembrano portare benefici modesti nelle fasi in cui l’economia è depressa, e questo «suggerisce che tali riforme dovrebbero probabilmente attendere un miglioramento della situazione economica». Pari apprezzamento merita l’attenzione che il rapporto dedica al tema della diseguaglianza: un intero capitolo si occupa di questo tema che fortunatamente sembra aver riconquistato, dopo anni di oblio, un posto centrale nelle analisi di politica economica.