Una cosa è certa: la soluzione indicata dal governo sull’articolo 18 va ben oltre qualsiasi nozione di «manutenzione». Il mantenimento della tutela reale (il «reintegro») per il solo caso dei licenziamenti discriminatori equivale nei fatti a una monetizzazione di tale diritto in tutti i casi di una qualche rilevanza pratica.

Al di là delle diverse fattispecie si può ben capire che, se la riforma passasse in questi termini, la modalità normale del licenziamento sarebbe quella per motivi economici, con indennizzo monetario. Se ad oggi è l’impresa a dover giustificare, se richiesto di fronte a un giudice del lavoro, il sussistere di ragioni valide per procedere al licenziamento individuale, con la riforma toccherebbe al lavoratore l’onere di dimostrare che quel licenziamento non è realmente «economico» ma dettato da ragioni discriminatorie. Con quali difficoltà ed esiti è facile prevederlo. Siamo insomma ben oltre il «modello tedesco» indicato dal Partito democratico come limite accettabile alla riduzione delle tutele; ma siamo anche oltre la proposta del senatore Pietro Ichino, che comunque limitava la nuova regolazione contrattuale ai soli nuovi assunti.

Non sbagliano pertanto di molto i commentatori stranieri nel descrivere l’azione del governo Monti, senza mezzi termini, come una deregolamentazione del mercato del lavoro e una riduzione dei costi di licenziamento. Era necessaria? Il nostro mercato del lavoro è così rigido? Gli indicatori più diffusi dicono altro: l’Ocse già colloca l’Italia al decimo posto su 46 Paesi nella scala della facilità di licenziamento individuale di un lavoratore a tempo indeterminato, agli stessi livelli di Danimarca e Irlanda. Si toccano gli ultragarantiti? I dati ci dicono che il 30 per cento di chi è a tempo indeterminato registra, in un arco di cinque anni, un peggioramento dello status lavorativo, passando alla disoccupazione o a forme di lavoro meno stabile. Cose dette e ripetute da chi cercava di portare il dibattito dal piano dell’ideologia a quello dei fatti e dei dati, e tuttavia ignorate.

Non è un mistero che la richiesta di deregolamentazione risponda a una precisa visione di come l’economia italiana dovrebbe superare la crisi: non già attraverso la strada difficile ma sostenibile degli investimenti, della riqualificazione della pubblica amministrazione, di una rinnovata politica industriale, bensì quella rapida ma socialmente rischiosa di una deflazione salariale, di una sostituzione di lavoratori anziani con (meno costosi) lavoratori giovani, di aumenti della diseguaglianza delle retribuzioni. Una linea che non è certo quella del Partito democratico.

A rendere più difficile un confronto corretto e nel merito dei problemi contribuisce però anche una certa retorica che insiste sulla contrapposizione tra interesse generale (del governo) e interessi particolari (di chi ha una diversa visione, sindacati o partiti), o tra giovani e anziani. Magari a quei ventenni e trentenni che si afferma di voler difendere sarebbe il caso di spiegare che se un loro maggiore accesso all’occupazione deve venire dalla cosiddetta flessibilità in uscita, è probabile che ciò avvenga, in questo caso sì, a spese dei loro genitori cinquantenni e sessantenni, estromessi dal sistema produttivo perché più costosi e difficilmente reimpiegabili. In assenza di alternative, un lavoro precario, sottopagato e con minori contributi (la pensione è lontana) è comunque meglio di nessun lavoro, e un lavoro a tempo indeterminato con garanzie ridotte è meglio di un lavoro precario. Chi è debole tende a considerare chi è marginalmente meno debole un privilegiato; se questa è una reazione naturale, è insopportabile costruirvi il consenso per un’azione politica. Tanto più che abbiamo troppa stima per questi giovani per pensare che siano così poco lungimiranti da non capire come una svalutazione complessiva del lavoro non sia per loro un grande vantaggio.