Se nelle fasi di crescita può essere normale una certa tolleranza riguardo al modo in cui i vantaggi sono distribuiti tra i diversi gruppi sociali, tale tolleranza sembra scomparire in una fase come quella corrente, in cui si tratta di dividersi costi e sacrifici. Così si spiega la reazione giustamente scandalizzata rispetto ai dati fiscali pubblicati qualche giorno fa. E così forse si spiega anche l’attenzione che, dall’inizio della crisi, sta ricevendo il tema della diseguaglianza, relegato per decenni alle discussioni accademiche.

Nei decenni più recenti la crescita ha concentrato i suoi benefici sul 10% (o l’1% quando non addirittura lo 0,1%) più ricco della popolazione delle economie avanzate. Il fenomeno si è manifestato prima e in misura più netta nei paesi anglosassoni, successivamente (dagli anni Novanta) nel nostro paese, per toccare nell’ultimo decennio anche i paesi tradizionalmente più egualitari del Centro e Nord Europa. E se ancora gli economisti discutono se tali crescenti diseguaglianze debbano essere considerate una causa della crisi, vi sono pochi dubbi che esse siano quanto meno il sintomo di uno sviluppo squilibrato e alla lunga non sostenibile.

L’Italia è un paese ad elevata diseguaglianza dei redditi, alleviata solo in parte dal sistema fiscale e di welfare. Una diseguaglianza che ha tra le sue determinanti la struttura frammentata del mercato del lavoro e il basso tasso di occupazione, per cui molte famiglie contano su un’unica fonte di reddito. L’ultimo quindicennio, segnato da una sostanziale stagnazione delle retribuzioni e della produttività, non ha certo alleviato il problema.

È una situazione che preoccupa soprattutto rispetto alle urgenze poste dalla crisi, e alla necessità di affrontare la cura di austerità e gli aggiustamenti richiesti dai vincoli europei. Come ricordato nei giorni scorsi anche da alcuni rapporti riservati indirizzati ai ministri dell’economia dell’Unione, la crisi non è affatto finita. E anche una volta superata l’emergenza dei debiti pubblici, resta da affrontare il problema di garantire la sostenibilità dell’unione monetaria nel medio/lungo periodo. Il primo decennio di moneta unica ha messo in luce quanto sia inefficace affidare il riequilibrio alla mera disciplina dei conti pubblici. Economie eterogenee che condividono la stessa moneta dovrebbero disporre di un meccanismo in grado di riassorbire le divergenze nei tassi di crescita dei prezzi e della produttività. Non essendo disponibili gli strumenti tipici di un vero stato federale (mobilità del lavoro, trasferimenti fiscali tra paesi), il riequilibrio dovrà trovare altre strade. La soluzione implicita nella corrente ricetta europea è che l’aggiustamento debba interessare principalmente il mercato del lavoro. Le politiche fiscali restrittive, con la conseguente caduta di domanda e occupazione, dovrebbero sostituire, via deflazione di prezzi e salari, le tradizionali svalutazioni. Una strada dolorosa ed estremamente pesante sul piano sociale, i cui costi si ritiene possano essere tanto minori quanto più rapido sarà l’aggiustamento, e quindi quanto più le invocate “riforme strutturali” renderanno flessibile il mercato del lavoro.

Ma siamo certi che questa sia la strada migliore? Quei paesi che, come la Germania, con più successo hanno controllato la propria inflazione e il costo del lavoro sono semmai caratterizzati da istituzioni del lavoro centralizzate e forti, e dal coinvolgimento dei lavoratori nelle decisioni industriali. Se anche accettassimo dunque la premessa per cui l’aggiustamento deve essere interamente a carico dei paesi periferici (il che rischia di essere tristemente vero in assenza di cambiamenti negli obiettivi di inflazione e di mutamenti nella politica economica dei paesi più forti), di fronte alla necessità di controllare la dinamica salariale, sarebbe comunque preferibile perseguire tale obiettivo per via concertata piuttosto che attraverso la deregolamentazione del lavoro. Gli effetti negativi per i lavoratori potrebbero essere infatti almeno in parte compensati dal mantenimento di un adeguato sistema di welfare; sarebbe possibile esigere la contropartita un’adeguata politica di investimenti pubblici e privati per l’occupazione, di politiche fiscali redistributive. Insomma, tra la via tedesca della concertazione e quella anglosassone in cui ci si affida alle virtù di un mercato non regolato, è la prima quella che meglio risponde alle esigenze del paese. Nonché la sola che potrebbe garantire che l’uscita dalla crisi non avvenga al prezzo di ulteriori aumenti nelle diseguaglianze retributive, esito prevedibile della liberalizzazione del mercato del lavoro. Ciò che ancora non è chiaro è se questa sia anche la linea del governo italiano.