Ci sono due prospettive da cui guardare al ritrovato clima di intesa sulla riforma del mercato del lavoro. Il primo riguarda il merito del provvedimento. L’iniziale proposta del governo sul licenziamento per motivi economici è stata rivista nella direzione invocata dal Partito democratico.

Il giudice potrà verificare infatti l’effettiva sussistenza del motivo economico (e questo implica per il datore di lavoro l’onere di motivare adeguatamente il licenziamento) e avrà la possibilità, in caso di abuso, di stabilire il reintegro del lavoratore. Tale soluzione sembra quindi rispondere alla principale obiezione rispetto alla precedente formulazione, che offriva il fianco all’abuso della causa economica per nascondere motivazioni diverse, magari disciplinari o discriminatorie. Questa disponibilità del governo a correggere l’errore iniziale è motivo di soddisfazione e sollievo, specie rispetto a quello che era inizialmente parso un irrigidimento. Ciò non esime il Parlamento dal compito di migliorare ulteriormente la riforma. La pur cruciale discussione sull’articolo 18 non deve farci dimenticare infatti la necessità di intervenire in modo deciso sul problema della precarietà. Abbiamo negato più volte su queste pagine che la soluzione al cosiddetto “dualismo” potesse essere ridurre le tutele per il lavoro a tempo indeterminato, ma proprio per questo va percorsa l’altra strada, quella di alzare le tutele a chi ne ha di meno o non ne ha.

Da questo punto di vista, c’è ancora una significativa distanza tra il progetto del governo e le proposte democratiche. Per citare alcuni aspetti su cui auspichiamo che il Parlamento intervenga, esiste il rischio concreto che l’aumento previsto dei contributi per i contratti parasubordinati sia traslato sui lavoratori attraverso una riduzione delle retribuzioni nette; proprio per questo sarebbe il caso di prevedere l’introduzione di minimi retributivi da applicarsi a tali contratti. Inoltre, per evitare che gli interventi si traducano in un aumento complessivo del costo del lavoro e per incoraggiare il ricorso al tempo indeterminato, il Partito democratico aveva suggerito che l’incremento dei contributi per i parasubordinati fosse accompagnato da una riduzione di quelli per i lavoratori a tempo indeterminato. Ancora: troppo poco esteso sembra essere, nella proposta governativa, l’accesso ai nuovi ammortizzatori sociali, dai quali restano escluse molte tipologie contrattuali.

Resta infine il drammatico problema dei lavoratori “maturi” che hanno perso o perderanno il lavoro e si troveranno nel limbo dell’attesa del raggiungimento dell’età pensionabile. Sono interventi costosi, ma la riforma delle pensioni fu accettata anche con l’aspettativa che i risparmi di spesa sarebbero andati a vantaggio dei giovani precari. Insomma: bene la rinuncia ad aumentare la cosiddetta flessibilità in uscita; ma siamo ancora lontani da quel sistema di ammortizzatori universali che dovrebbe, anche nelle dichiarazioni del governo, rafforzare il versante della security, sempre invocato in passato ma mai realizzato.

Dicevo che esiste una seconda prospettiva da cui guardare alla mediazione raggiunta ieri. Mi riferisco al segnale ai mercati internazionali, un aspetto cui il governo si mostra comprensibilmente molto sensibile. Ieri, in modo più esplicito che in passato, il presidente della Bce Mario Draghi è tornato a chiedere che i Paesi che hanno perso competitività, oltre ad interventi che aumentino la produttività, assicurino «sufficienti correzioni dei salari» (si intende: al ribasso). Come abbiamo spesso ripetuto, quella della deflazione salariale è una strada obbligata finché l’Europa non abbandonerà la linea dell’austerità indicata dai governi conservatori.

Nei giorni scorsi molti commentatori stranieri, ricorrendo all’immagine stereotipata (ma empiricamente infondata) di un mercato del lavoro italiano eccessivamente rigido, avevano parlato di un conflitto tra un governo impegnato a realizzare le riforme chieste dai mercati internazionali e dalle istituzioni europee da una parte e le forze della sinistra e dei sindacati dall’altra. Si tratta di una caricatura, e siamo convinti che la giornata di ieri e il passaggio in Parlamento contribuiranno a dimostrarlo. È importante che l’Italia segnali in modo chiaro che l’aggiustamento degli squilibri europei non avverrà smantellando le tutele dei lavoratori italiani. E che esiste una forza politica che si candida a governare il Paese e che su questo punto non intende cedere.