È stato detto che nell’attuale situazione dell’economia europea tagli alla spesa pubblica avrebbero effetti meno recessivi di aumenti delle imposte. È un’affermazione sorprendente. Infatti, una riduzione della spesa pubblica si traduce integralmente (con effetti moltiplicativi) in una riduzione del livello di attività economica, mentre un aumento delle imposte (specie se a vantaggio dei redditi più elevati) viene in parte assorbita da una riduzione dei risparmi dei contribuenti e ha quindi un minore effetto depressivo sulla spesa corrente. È un meccanismo ben illustrato nei testi di economia, anche quelli introduttivi, ove si spiega che un’espansione del bilancio «in pareggio», ovvero un aumento di spesa effettuata senza generare deficit, può essere un efficace strumento di stimolo in presenza di elevata disoccupazione e di scarsa efficacia della politica monetaria. Ovvero nella situazione attuale.

C’è poco da fare: il dibattito di politica economica resta condizionato dalla convinzione che la crescita passi per una riduzione della spesa pubblica. L’assunto di fondo è che, essendo la spesa pubblica immancabilmente meno efficiente della spesa privata, un euro di minori imposte in mano ai contribuenti sia comunque meglio di un euro sotto forma di servizi erogati al prezzo di sprechi e inefficienze. Si potrebbe anche essere d’accordo sugli sprechi, ma resta il fatto che, anche lasciando da parte ovvie considerazioni di equità, lo Stato non può non farsi carico di quei beni e servizi che, per loro natura, il mercato da solo non fornirebbe. Molti di questi beni sono ingredienti fondamentali per riattivare la crescita e incoraggiare gli stessi investimenti privati: la realizzazione di opere infrastrutturali, la ricerca (specie quella di base), un’efficiente amministrazione della giustizia (cioè capace di dare certezza nell’applicazione delle sanzioni e nell’esigibilità dei contratti), per fare solo degli esempi.

Intendiamoci, ben venga l’eliminazione di inefficienze e sprechi, basta non illudersi che ciò che costa di meno sia sempre più efficiente. Se riduco la dotazione di benzina razionalizzando il percorso di un mezzo pubblico, è efficienza, se la riduco al punto che il mezzo pubblico sta fermo in deposito, avrò ridotto la spesa ma ho anche aggiunto spreco a spreco. Quando si parla di spending review ci si riferisce in fondo a questo, alla necessità di evitare interventi all’ingrosso che potrebbero compromettere la funzionalità di un servizio.

Sarebbe anzi il caso di sdrammatizzare la stessa contrapposizione tra (minori) spese e (maggiori) imposte, visto che spesso essa nasconde interventi equivalenti nella sostanza. Un taglio degli assegni familiari o dei farmaci erogati gratuitamente (riduzione della spesa) non ha forse effetti analoghi ad una riduzione delle detrazioni per familiari a carico o delle spese sanitarie (aumento delle imposte)? Tutto vero, si dirà, ma ridurre la spesa non è una via obbligata quando le imposte sono già troppo alte e non possono essere ulteriormente aumentate? Imposte più alte disincentivano l’attività economica e, riducendo il reddito netto a parità di retribuzione lorda, scoraggiano il lavoro (o magari incentivano l’evasione!). Il male minore sembra essere tagliare i servizi pubblici, magari introducendo forme di selettività e compartecipazione a carico dei redditi più alti (vedi ticket sanitari crescenti in base al reddito) per evitare che la misura risulti troppo iniqua. Anche qui la differenza è però più apparente che reale. L’introduzione di forme di accesso selettivo ai servizi pubblici in base al reddito è equivalente ad un’indiretta tassazione dello stesso, visto che la percezione di un reddito più elevato si tradurrà in maggiore spesa per ottenere gli stessi servizi. Stesso disincentivo al lavoro e all’attività economica (e stesso incentivo all’evasione) di un aumento delle imposte sui redditi più elevati. Insomma, nessun vantaggio tale da giustificare un abbandono dell’universalismo.

La conclusione è che rispetto alla spesa pubblica, nonostante l’insistenza di qualche commentatore, non ci sono scorciatoie o ricette facili. Del resto, decenni di discussioni accese tra economisti non hanno individuato alcuna relazione univoca tra dimensione del settore pubblico e crescita. Non c’è la spesa pubblica cattiva, così come non ci sono le imposte buone. Ci sono semmai programmi di spesa più o meno efficaci ed efficienti, e imposte più o meno distorsive ed eque.