Si registra impazienza da parte di certi commentatori perché il governo non avrebbe ancora realizzato rilevanti tagli alla spesa pubblica. È diffusa l’idea che la soluzione possa passare per un rapido dimagrimento dello Stato. Opinione che non può che generare frustrazione. Realizzare i risparmi immaginati presenta infatti oggettive difficoltà.

La spesa pubblica italiana non è particolarmente elevata in termini complessivi, al netto degli interessi sul debito. Non abbiamo un numero particolarmente elevato di dipendenti pubblici in rapporto alla popolazione (sotto la media Ocse) e nemmeno li paghiamo in modo particolarmente generoso. A meno di mettere all’ordine del giorno quella riduzione delle retribuzioni pubbliche di cui parlava la scorsa estate la famosa lettera della Bce, non sembra ragionevole prevedere ulteriori risparmi su questo fronte, che ammonta a un quarto della spesa. Del resto, sulle retribuzioni si è già intervenuti, eccome: il blocco introdotto dal governo Berlusconi determinerà, nel giro di 4-5 anni, una riduzione delle retribuzioni vicina al 10% in termini reali. E la drastica riduzione nel turnover porterà a una riduzione del personale, un risparmio che pagherà soprattutto la generazione più giovane, esclusa dall’accesso al comparto pubblico (e che pagheremo un po’ tutti sotto forma di invecchiamento di medici, insegnanti, forze dell’ordine).

Come ci ricordano i nostri sindaci, anche gli enti locali sono in sofferenza. Intervenire sui trasferimenti a Regioni ed enti locali è un modo relativamente facile per scaricare su altri la responsabilità di tagli o aumenti di imposte. C’è poi il capitolo delle pensioni, considerato un’anomalia italiana in quanto è l’unica voce di spesa sociale in cui spendiamo più degli altri Paesi. Un intervento sulle pensioni in essere è stato uno dei primi interventi del governo Monti; anche qui è difficile immaginare ulteriori risparmi nell’immediato.

E dunque? C’è qualche spazio sugli acquisti di beni e servizi; aspettiamo di vedere che cosa proporra il professor Giavazzi in tema di incentivi alle imprese. Poca cosa. Ci sono i famosi costi della politica; doveroso tagliarli, ma anche qui si sta forse sopravvalutando l’impatto sui conti pubblici. L’abolizione delle Province porterebbe a risparmi quasi certamente inferiori a un miliardo di euro (su una spesa complessiva di 800 miliardi).

Certo, al livello di spesa pubblica da noi non corrisponde una qualità adeguata di servizi. A tale constatazione si può rispondere in due modi. Il primo è lo smantellamento di un sistema di servizi universali; questa è l’agenda di molti alfieri dell’austerità, conquistati alla tesi che la crisi europea rifletta l’insostenibilità del suo modello sociale. Riduzioni significative nella spesa pubblica, che abbiano un impatto macroeconomico rilevante, sono possibili solo adottando soluzioni privatistiche in cui il costo di tali beni viene spostato sulle famiglie, con ovvi effetti in termini redistributivi, oltre che di efficienza (la sanità privata è più costosa di quella pubblica a parità di esiti in termini sanitari).

L’alternativa non è la difesa dell’esistente. Intervenire sul comparto pubblico è una priorità proprio a difesa del nostro modello sociale. Purché si abbandoni un approccio per così dire “macroeconomico”, troppo attento alle quantità aggregate. L’attenzione andrebbe invece concentrata su interventi “micro” che portino a una più efficace organizzazione e a un mutamento del rapporto stato-cittadini; attraverso la formazione del personale, la responsabilizzazione dei dirigenti (e non solo), l’introduzione di una cultura della valutazione. Nessuna ricetta miracolosa, una cura lunga e frutto di interventi capillari, che possono portare in molti casi a risparmi di spesa, ma anche evidenziare in qualche caso situazioni di sotto-finanziamento. Un settore pubblico “europeo”, che eroghi servizi di qualità e quindi sia anche supporto alla crescita: ce n’è abbastanza per definire una buona metà del programma di governo per una forza progressista.