Uno degli effetti dei mutati rapporti di forza nell’Ue dopo l’elezione di Françoise Hollande è la scelta di mettere sul tavolo l’ipotesi degli eurobond. Al fine di rassicurare i mercati sulla solvibilità dei debiti sovrani europei, le soluzioni ipotizzate dagli economisti negli ultimi anni vanno dall’azione diretta della Banca centrale europea all’emissione di titoli a garanzia congiunta che assorbano i debiti dei singoli stati, appunto gli eurobond.

L’obiezione opposta a tutte queste proposte è che esse comporterebbero sempre, in un modo o nell’altro, forme di trasferimento fiscale tra Paesi. Non si fraintenda: nessuno chiede ai tedeschi di accollarsi direttamente il debito italiano; in ogni variante della proposta, ciascun Paese resterebbe infatti responsabile di servire e redimere la propria quota di debito. Tuttavia, ai tedeschi si chiederebbe di garantire per gli italiani, cioè di assumersi parte del rischio che gli italiani ad un certo punto non possano (o non vogliano) ripagare. Il trasferimento è dunque solo eventuale, ma non per questo meno reale, visto che è possibile che la Germania possa subire un peggioramento del proprio rating, e quindi un aumento del proprio costo di indebitamento. Va tuttavia chiarito che non si tratterebbe di un mero trasferimento, di un gioco a somma zero tra Paesi. Il tasso di interesse che tutti i partecipanti dovrebbero pagare, dovendo incorporare il rischio di default dei Paesi più in crisi, sarebbe certo più alto di quello (vicino a zero) che attualmente si applica ai Bund tedeschi. Esso consentirebbe tuttavia di escludere definitivamente quella componente di rischio che dipende dal timore di una rottura dell’euro e da un eccesso di pessimismo degli investitori. Vi sarebbe cioè un guadagno netto a livello europeo.

Purtroppo, è uno di quei casi in cui il fatto che un’azione sia vantaggiosa nel complesso non è sufficiente: è necessario che ciascun Paese accetti che essa è anche nel suo proprio interesse. Per la Germania ciò è particolarmente difficile, vista l’ottima salute di cui gode la sua economia; di fronte ad un’opinione pubblica che considera che i problemi siano altrove, anche le differenze tra Cdu e Spd rischiano di essere relative. L’economia tedesca ha finora attraversato piuttosto bene la crisi, forte delle azioni di riforma della propria struttura produttiva del decennio precedente, ma anche traendo qualche vantaggio dalla crisi stessa e dal modo in cui sono state affrontate le situazioni più critiche. La Germania sta infatti beneficiando della debolezza altrui. Se i capitali fuggono dai Paesi periferici determinando una generale situazione di sofferenza per banche e imprese, è per riversarsi in Germania, dove il costo del credito è ai più bassi livelli di sempre. I capitali tedeschi che avevano alimentato la bolla immobiliare spagnola e gli eccessi di finanza pubblica greca sono tornati indenni alle banche tedesche (le passività private tedesche verso la Grecia sono state progressivamente trasformate in passività delle banche centrali dell’intera Ue). Si dovrebbe riconoscere che trasferimenti sono già in atto, in questo caso a vantaggio dei Paesi virtuosi, e il fatto che si realizzino non per via fiscale bensì attraverso il mercato dei capitali, non li rende meno reali o più accettabili.

Ma c’è un ulteriore aspetto. La cancelliera Merkel avrebbe affermato che gli eurobond, determinando bassi tassi di interesse, spingerebbero i Paesi indisciplinati a ricadere negli errori del passato. Se questo fosse veramente il suo pensiero, il disaccordo non sarebbe tanto sui costi di questa soluzione, ma sull’obiettivo stesso di riduzione dei costi di accesso al credito. È l’idea che solo tenendo i Paesi in difficoltà al limite del fallimento si potrà spingerli a realizzare le riforme necessarie (quali siano queste riforme e quanto funzionino ormai lo sappiamo). Una versione riveduta del gioco del pollo, ma abbiamo visto tutti come è andata a finire nel film «Gioventù bruciata».

Insomma, il vertice del 28 giugno sarà cruciale, e non certo in discesa. Ma ormai sappiamo che o si va avanti sulla strada dell’integrazione, passando anche per una «unione dei trasferimenti», oppure siamo destinati a tornare indietro, e quanto indietro è difficile prevedere.