I dati pubblicati ieri dall’Istat corrispondono a quanto previsto e annunciato. Eppure l’aumento del tasso di disoccupazione dal 8,6% al 10,9%, il 2,3% in un solo anno, riesce a impressionarci. Un valore medio che non risparmia alcun gruppo e colpisce tutte le aree geografiche. Ma che risulta particolarmente grave per le donne (+2,6%), per il Mezzogiorno (+3,7%) e per i giovani (fascia 15-24 anni), per i quali si registra un’impennata dal 29,6% al 35,9% (+6,3%). E ancora: aumenta il part-time involontario a scapito del lavoro a tempo pieno. Diminuisce di più di 250 mila unità il numero di dipendenti a tempo indeterminato (ma non erano ipergarantiti?) mentre crescono i dipendenti a termine. All’aumento dei disoccupati si accompagna quello degli inattivi, soprattutto nella componente femminile. Tra i motivi per cui si smette di cercare lavoro, in aumento la componente dovuta allo “scoraggiamento”.

Quando sono relativi all’occupazione, i numeri hanno la capacità di perdere parte della loro freddezza, e restituirci il senso più drammatico della crisi in corso, fatto di storie individuali di ansie, speranze deluse, quando non situazioni di vera e propria disperazione. Che da questo dato di realtà una forza progressista debba partire per riaggregare un progetto politico adeguato alla sfida del momento è un’osservazione così ovvia da apparire banale. Deve essere chiaro peraltro che ciò di cui stiamo parlando non è altra cosa rispetto alle questioni di cui ragioniamo da mesi: la fuga dei capitali dalla periferia al centro dell’Europa, la crisi bancaria, le iniezioni di liquidità della Bce, il pareggio di bilancio e il fiscal compact, i divari di competitività, la politica industriale, le riforme strutturali. Tutto si tiene, e certi temi cari a molta stampa – dagli stipendi dei deputati alle auto blu – sbiadiscono rispetto all’urgenza di dare un senso all’azione politica, mostrando capacità di guidare il Paese fuori dalla crisi.

Che fare? Se la disoccupazione è un aspetto del più generale problema economico europeo ed italiano, e se è vero che quella dell’eurozona è una crisi che ci siamo in buona parte auto-inflitti con le scelte fallimentari dei leader europei, si tratta in primo luogo di continuare ad adoperarsi per contrastare e invertire tale linea perdente. Va tuttavia evitato l’errore di pensare che basti superare la fase acuta della crisi e mettere in sicurezza l’economia. La possibilità di una jobless recovery, una ripresa senza lavoro, va prevenuta, se necessario con politiche mirate e risorse dedicate. Non penso certo a politiche di pura domanda, a una versione su larga scala dei lavori socialmente utili. Politiche corrette dovrebbero coniugare l’attenzione insieme al lato domanda e al lato offerta. Accrescere il livello di capitale umano e l’occupabilità, e privilegiare quei progetti e programmi in grado di garantire, a parità di spesa, una maggiore intensità di lavoro, effetti moltiplicativi e formazione di capitale umano.

Due esempi, a puro titolo illustrativo. Se uno dei maggiori spazi di crescita per la nostra economia è la mobilitazione del lavoro femminile, programmi a sostegno della fornitura di servizi di cura (all’infanzia, agli anziani), che avrebbero il duplice effetto di creare direttamente domanda (in buona parte femminile) e di rendere meno costoso l’ingresso di donne nel mercato del lavoro, dovrebbero ricevere ben maggiore attenzione. E sarebbero certamente più efficaci di altrettanto costosi ma meno “attivanti” schemi di detrazione fiscale. O ancora, in un contesto diverso, penso all’opportunità di adottare, nella pubblica amministrazione, software “open source” in luogo di applicativi “proprietari”. Quando politiche del genere sono state prese in considerazione, lo si è fatti con un’ottica sbagliata, quella del risparmio. Il passaggio al software non proprietario non comporta grandi risparmi perché aumenta il costo dell’assistenza, specie nella fase di migrazione; esso sostituisce tuttavia il costo delle royalties alle multinazionali del software con il lavoro di giovani qualificati nel nostro Paese. Come dicevo, sono solo esempi. Ma quello di orientare le (poche) risorse disponibili in modo che possano massimizzare i propri effetti sul lavoro, specie quello giovane e qualificato, non è un’urgenza che può essere ulteriormente rimandata.