Raggiungimento del pareggio di bilancio nei tempi previsti vuol dire più imposte e meno spesa pubblica. Non che i tagli alla spesa siano meno reali, ma le conseguenze sono forse meno visibili nell’immediato; il contribuente alle prese con il primo versamento dell’Imu ha invece una misura diretta di alcuni degli effetti delle manovre di risanamento dei mesi scorsi. Fin dall’introduzione dell’Imu ad opera del ministro Tremonti era ben chiaro che ciò che veniva propagandata come semplificazione nascondeva un sistema piuttosto farraginoso, poco organico e non privo di elementi di criticità. Il governo Monti, dovendo intervenire con rapidità, decise di anticipare l’introduzione dell’imposta di due anni, senza rivederne l’impianto e limitandosi ad aggiungere alla base imponibile le abitazioni principali. In presenza di pesanti tagli nei trasferimenti agli enti locali, lo spazio di riacquistata autonomia offerto dall’Imu è stato comprensibilmente utilizzato dai Comuni per far fronte alla sofferenza dei bilanci.

Le tabelle del ministero mostrano che il peso dell’imposta sulle abitazioni principali è in media analogo a quello della vecchia Ici (pagano qualcosa di più le abitazioni con rendita più alta, di meno quelle più piccole). Esso è tuttavia decisamente superiore per seconde case e per immobili ad uso non abitativo, come i fondi commerciali. Niente di male in linea di principio sotto il profilo equitativo. Sappiamo che la distribuzione del patrimonio immobiliare è più concentrata del reddito, dunque l’imposizione immobiliare aumenta la progressività del sistema. L’imposta immobiliare è peraltro considerata una di quelle più “efficienti”, ovvero con minore impatto distorsivo sull’attività economica.

Questo in astratto. Nel concreto, se il riferimento alle rendite catastali, ormai obsolete, poteva risultare tollerabile con un più basso livello di imposizione, in presenza di aliquote ben più elevate finisce per dar luogo a situazioni di vera e propria iniquità. Il governo ha promesso l’avvio della revisione degli estimi, ma nell’immediato il problema resta. In secondo luogo la modalità di versamento, senza un’indicazione analitica che consenta un diretto riscontro con i dati catastali, fa pensare che il controllo della correttezza difficilmente sarà effettuato in modo sistematico, con buona pace della semplicità di accertamento, uno dei supposti vantaggi della tassazione immobiliare.

Il nervosismo suscitato dalle scadenze Imu rischia tuttavia di essere solo un assaggio di quello che potrebbe avvenire se dovesse aver luogo l’aumento dell’Iva previsto per fine estate. Dopo l’incremento dal 20 al 21% intervenuto lo scorso I gennaio, sembra ormai ineluttabile un ulteriore aumento che porterebbe, in meno di un anno, l’aliquota ordinaria dal 20 al 23% (quella agevolata dal 10 al 12%). Si tratterebbe di un ulteriore colpo all’attività economica, con effetti sostanzialmente analoghi a quello di un aumento della tassazione sul reddito, che colpirebbe in modo particolarmente pesante nell’immediato chi consuma una quota maggiore del proprio reddito (cioè i redditi più bassi) e chi ha un reddito non protetto dall’inflazione. C’è modo di evitare tale esito? Qui torniamo al punto di partenza: gli obiettivi di consolidamento fiscale, fissati dal governo Berlusconi e ribaditi dal governo in carica, nell’aspettativa che un rapido raggiungimento del pareggio di bilancio avrebbe ristabilito la fiducia dei mercati, determinando una riduzione del costo del credito (e degli oneri del debito pubblico) e quindi rilanciando la crescita. Un’attesa che purtroppo, ad oggi, non sembra materializzarsi. È ormai chiaro che la soluzione della crisi dell’eurozona non verrà dalla diligenza con cui i governi mettono in pratica la cura di austerità. Si sta verificando invece quanto era più realisticamente prevedibile: una contrazione dell’attività economica che in parte finisce per vanificare lo stesso sforzo di risanamento, oltre che di provocare danni in parte irreversibili al tessuto produttivo. Se non basta il consolidamento fiscale per rimetterci su una strada di crescita, se riavviare la crescita richiede risorse, occorre allentare la stretta in atto. Chi ha consapevolezza della situazione si è già reso conto che ci sono solo due possibilità: la prima è agire sul costo del debito pubblico (e del credito) con interventi risolutivi a livello europeo; la seconda, qualora la prima non prendesse corpo in tempi rapidi, è rivedere gli obiettivi fiscali fissati, riconoscendo che erano basati su premesse troppo ottimistiche.