Liberisti contro keynesiani. Ricondurre la discussione a contrapposizione tra visioni generali dell’economia è utile, a patto di evitare le caricature e precisare correttamente i termini, calandoli nella situazione corrente. Anche per non dare spazio ad analisi superficiali per le quali l’Italia sarebbe immune dall’influenza liberista in quanto non ha avuto esperienze thatcheriane, e l’adesione a politiche keynesiane si misurerebbe dalla presenza di un elevato debito pubblico.

Certo, può suonare improprio accostare il termine liberismo, di solito associato a più radicali esperienze del mondo anglosassone, alle politiche propugnate in Europa dai conservatori tedeschi, al governo in un Paese che vanta pur sempre un generoso sistema di welfare. Eppure, non è difficile riconoscere il nucleo del credo liberista nell’idea che le economie dei Paesi in crisi possano risollevarsi spontaneamente tramite politiche fiscali restrittive, liberalizzazioni del mercato del lavoro e un restringimento del perimetro del pubblico. Esaminiamola più a fondo, tale idea. Una delle sue premesse è che un aumento del risparmio pubblico (meno spesa e/o più entrate) porti ad un aumento compensativo o più che compensativo della spesa privata. Siamo ben lontani dal «siamo tutti keynesiani» del presidente Nixon se in tanti sono disposti a credere che questo possa accadere oggi in Europa.

Nel corrente contesto di aspettative negative la riduzione dalla spesa di famiglie, imprese e settore pubblico, lungi dal tradursi in aumento degli investimenti, genera solo ulteriori astensioni da consumo e investimento. Né hanno speranza di funzionare gli stimoli offerti da variazioni dei prezzi, quello del credito o quello del lavoro. Che la politica di austerità si stia rivelando inefficace nel ridurre il costo del credito alle imprese è ormai ovvio a chiunque abbia occhi per vedere. Quanto alla riduzione dei salari nominali, se mai l’aumento della disoccupazione fosse di tale entità da determinarla, essa sarebbe di ben poco aiuto. Non solo perché deprimerebbe ulteriormente la domanda delle famiglie, ma anche per l’effetto negativo su finanza pubblica e debito (la deflazione aumenta il peso del debito per l’economia). Fu proprio a fronte dell’inefficacia di tali meccanismi di riequilibrio che John Maynard Keynes, sfidando l’ortodossia liberista dei suoi tempi, così simile a quella odierna, suggerì che un ruolo di “attivazione” dovesse essere svolto della politica fiscale, attraverso investimenti pubblici o politiche redistributive.

L’obiezione è nota: nella situazione corrente è impensabile per l’Italia un ulteriore ricorso all’indebitamento pubblico. Nota ma non certo nuova, visto che ai tempi di Keynes il debito pubblico britannico eccedeva il 150% del Pil. Soprattutto, è un’obiezione che elude il punto rilevante, che è la necessità di rivedere il passo delle politiche di consolidamento fiscale fissate a livello europeo; di denunciare il potenziale distruttivo di un’austerità imposta a tutti i Paesi contemporaneamente; di mettere in campo interventi compensativi di rilancio della domanda nei Paesi più solidi o a livello comunitario. Tener conto della lezione di Keynes non significa cioè abbandonare l’attenzione al rigore fiscale, bensì levarsi i paraocchi che impediscono di riconoscere che l’austerità è controproducente per gli stessi obiettivi che si propone. Lungi dal conseguire il risanamento, i tagli alla spesa e gli aumenti di imposta (i primi più dei secondi) riducono il livello di attività economica e l’occupazione, erodendo la stessa base fiscale su cui il risanamento dovrebbe basarsi.

Le resistenze ideologiche non riguardano solo la necessità di politiche di domanda, ma anche la questione più generale del ruolo del pubblico. Il pensiero liberista di casa nostra non è mai stato capace di farsi proposta politica condivisa, ma ha avuto forza sufficiente per sfruttare i molti casi di cattiva gestione della cosa pubblica a vantaggio dell’idea che la spesa pubblica sia sempre e necessariamente improduttiva. Per rilanciare l’attività economica privata occorre il superamento di alcuni colli di bottiglia che è semplicistico identificare tout court con l’eccesso di regolazione pubblica. Al contrario, i nostri ritardi storici quali il deficit nel rispetto delle regole, la scarsa fedeltà fiscale, le vaste aree di illegalità quando non di controllo criminale del territorio, la scarsa efficienza della pubblica amministrazione, il basso livello di istruzione, l’esiguità degli investimenti in ricerca e innovazione, richiedono azione di governo e mobilitazione di risorse pubbliche.

Si sente dire spesso che lo Stato, ricorrendo all’indebitamento, impoverirebbe le generazioni future. Un’affermazione corretta quando riferita al finanziamento in deficit di consumi correnti in condizioni di pieno impiego delle risorse. Una sciocchezza quando intesa nel senso che ogni scostamento dal pareggio di bilancio comporti una riduzione del benessere per i nostri figli e nipoti. Ci sono molti modi in cui un governo può impoverire le generazioni future. Astenersi, in nome di un pregiudizio ideologico, dal compiere quelle azioni e investimenti che contribuiscono ad aumentare la dotazione di infrastrutture materiali e immateriali del paese è uno di questi. Come ben noto ai confessori, esistono anche i peccati di omissione, e spesso sono i più gravi.