L’attenzione all’emergenza non dovrebbe farci dimenticare che la crisi in corso ha fatto deflagrare una situazione di debolezza che precede l’adozione dell’euro. L’economia italiana cresce poco da almeno due decenni, per effetto di una modesta dinamica della produttività. A tale esito concorrono diverse debolezze. Come la specializzazione nella produzione di beni a basso contenuto tecnologico e di capitale, sui quali è più forte la concorrenza dei Paesi emergenti. Come una dimensione produttiva inadeguata a reggere la concorrenza in termini di innovazione e penetrazione sui mercati globali. Come una pubblica amministrazione che spesso è più un freno che una risorsa. Questa situazione è in buona parte il risultato delle scelte (o mancate scelte) dei decenni scorsi.

Nel ventennio che abbiamo alle spalle non sono mancate le riforme. Il sistema pensionistico, l’introduzione di forme contrattuali flessibili nel mercato del lavoro, privatizzazioni di straordinaria ampiezza e intensità. E ancora: la riforma della governance societaria e i processi di concentrazione del sistema bancario. Scelte che tuttavia non hanno ottenuto i risultati sperati, e anzi in più di un caso hanno prodotto effetti indesiderati. Così, la privatizzazione dei servizi di pubblica utilità, creando posizioni di rendita, ha finito per distrarre importanti gruppi industriali da obiettivi più ambiziosi e opportuni per il Paese. La liquidazione delle partecipazioni statali, ormai in crisi, è avvenuta senza che altri soggetti ne prendessero il posto quanto a capacità di iniziativa strategica. La deregolamentazione del mercato del lavoro ha incoraggiato una concorrenza basata sul taglio dei costi del lavoro invece che sull’innovazione. E così via.

Non è stato insomma l’impulso riformista a mancare, ma semmai la capacità di proporre un disegno coerente e in linea con la realtà produttiva e istituzionale del Paese. Ha certamente influito, sul piano culturale, il prevalere dell’idea di un unico modello vincente, identificato con il capitalismo anglosassone. L’enfasi sulla competizione come meccanismo prevalente di regolazione sociale ha messo in ombra la necessità di istituzioni capaci di coordinare investimenti e scelte strategiche, chiave del successo di altri modelli di capitalismo a noi più affini, come quello tedesco. Il sistema produttivo italiano era riuscito, in un suo modo particolare, prima con la presenza pubblica nei settori strategici, poi con la soluzione originale dei distretti, a mantenere alcuni punti di forza. Tali soluzioni “coordinate”, non più funzionali, non sono state rimpiazzate da altre più adeguate. Un’analisi dell’insuccesso di quella stagione dovrebbe essere il punto di partenza di ogni sforzo riformista.

Non manca chi suggerisce di andare fino in fondo con ricette di stampo neoliberale: le carenze nella formazione di capitale umano, nella capacità di innovazione, nella qualità di molti servizi affidati al pubblico verrebbero superate con il ricorso a dosi massicce di concorrenza e con un arretramento del pubblico, cui si attribuisce la responsabilità per buona parte dei mali del Paese. I difetti del sistema di welfare sarebbero risolti alla radice con un ridimensionamento dello stesso in direzione di soluzioni privatistiche. Lasciare fare al mercato, lasciare che sia la selezione concorrenziale a determinare gli obiettivi, a decidere ciò che va salvato. È una visione che vede in fondo con favore un vincolo esterno europeo capace di indurre tagli drastici e impopolari.

In un sistema di capitalismo debole e frammentato come quello italiano, il rischio è tuttavia che una politica di laissez-faire e di deregolamentazione possa relegarci al ruolo periferico di sub-fornitori a basso costo delle economie più forti, o di spostare all’estero il centro di controllo del nostro sistema produttivo. C’è spazio per una ricetta alternativa, che non sia la nostalgica e irrealistica riproposizione di soluzioni buone per un’Italia che non c’è più da trent’anni? Si tratta di immaginare un nuovo ruolo di indirizzo e, ove occorre, di supplenza del soggetto pubblico. Ad esempio nel sostegno all’innovazione, facendo da catalizzatore a investimenti o favorendo forme di condivisione della proprietà intellettuale, o incoraggiando la cooperazione tra imprese e fornendo servizi che ne aiutino la penetrazione nei mercati esteri. Una rinnovata politica industriale: non dirigista, ma nemmeno vittima di anacronistici tabù sul ruolo dell’intervento pubblico.