Importanti editoriali e commenti hanno avallato nei giorni scorsi la tesi di una svolta nella linea di politica economica del Pd. Secondo questa interpretazione, il segretario e alcuni tra i massimi dirigenti del partito, espressione di una linea spesso considerata troppo sbilanciata a sinistra, avrebbero finalmente sposato una posizione più responsabile. Questa consisterebbe in un sostegno deciso all’euro e al progetto europeo di unione politica e federale. Ecco quindi il plauso alla “conversione” del responsabile economico del partito, Stefano Fassina, la cui posizione, recentemente illustrata in una lunga intervista al Foglio, Eugenio Scalfari descrive addirittura come un misto tra il programma della Merkel e quello di Monti.

Da osservatore e partecipante attivo nel dibattito, non posso non rilevare quanto tale ricostruzione strida con pronunciamenti e analisi dell’ultimo anno e mezzo. Fanno fede in particolare i corposi documenti varati in occasione dei Programmi nazionali di riforma del 2011 e del 2012, in cui l’analisi della crisi europea e l’indicazione delle possibili soluzioni è molto limpida. Mi riferisco ad esempio all’identificazione della crisi come europea prima che nazionale, originata dagli squilibri nei movimenti di capitale prima che da irresponsabilità fiscale. E quindi alla necessità di intervenire ridisegnando l’architettura dell’eurozona, e di distribuire il peso del riequilibrio tra creditori e debitori, utilizzando in modo più flessibile la politica monetaria e trovando strumenti per correggere i divari di competitività. Era ben chiaro insomma fin da subito che dalla situazione attuale si poteva uscire solo in avanti sulla strada dell’integrazione europea e della cessione di sovranità. Stupisce dunque la sorpresa di fronte alla riconferma di tale linea marcatamente europeista nelle scorse settimane. Un europeismo che peraltro non esclude una critica alle politiche troppo spesso avallate anche in sede europea, dall’austerità, di cui si denuncia il carattere autodistruttivo, all’insistenza sulle “politiche strutturali” di deregolamentazione del mercato del lavoro.

La questione della «conversione» è del resto parente stretta di quella, altrettanto oziosa, della «continuità» del progetto del Pd rispetto alla cosiddetta agenda Monti. In questo caso c’è l’ambiguità aggiuntiva determinata dal fatto che la linea del governo sembra essersi modificata proprio nel rapporto con l’Europa. Se in una prima fase era stato lanciato un chiaro messaggio di adesione alle politiche dettate a Bruxelles e Francoforte, autorizzando un’identificazione del programma di governo con quello della famigerata lettera della Bce, è seguito un progressivo smarcamento dalla linea tedesca, fino ad arrivare al duro confronto del recente vertice di fine giugno. Questo “secondo Monti”, ben più critico sullo scacchiere europeo con l’impostazione del governo Merkel, si muove senz’altro su una linea coerente con quella del Pd (e ormai di quasi tutti gli addetti ai lavori). Era il “primo Monti”, quello delle riforme strutturali e dello scontro coi sindacati, la condizione per un “secondo Monti”, capace di contrattare da pari a pari con i partner? Può darsi. Ed era tale evoluzione nelle intenzioni iniziali oppure è il risultato di una progressiva presa di coscienza dell’inefficacia delle politiche adottate? Lasciamo la risposta agli appassionati del genere.

A chi si diletta di conversioni e continuità consigliamo invece di non fermarsi alle indicazioni sulla linea di azione nello scenario più favorevole. Nessun leader responsabile potrebbe abbandonare, almeno finché l’attuale equilibrio regge, la prospettiva dell’integrazione politica e fiscale e della contrattazione “soft” con i partner. La vera domanda riguarda semmai gli scenari subordinati; qual è il piano B nel caso in cui la situazione dovesse precipitare? Quali interessi sarebbero sacrificati e quali salvati a ogni costo nel caso in cui dovesse verificarsi l’imprevisto? Dubito che Monti o qualsiasi altro leader sarebbe in condizione di rispondere a questa domanda oggi. Tuttavia, se una situazione del genere dovesse realizzarsi, ci sono molte buone ragioni (di cultura democratica, ma anche di natura economica) per augurarsi che al timone si trovi allora un buon politico, consapevole dell’impatto delle sue scelte sulla società, rispetto al migliore e più rispettato dei tecnici.