Esiste oggi, in Italia, lo spazio per un’autonoma proposta di politica economica per la coalizione di centrosinistra? Oppure, nella situazione data, il compito prioritario di tale coalizione è quello di recuperare la fiducia internazionale, attuando una ricetta predefinita? In questa domanda può riassumersi il nucleo del dibattito in corso, e la risposta che diamo è rilevante anche per la tanto discussa questione della continuità del prossimo con l’attuale governo.

La domanda non è affatto retorica. Non sarebbe del resto la prima volta che il ruolo di una forza progressista viene identificato nella sua maggiore capacità di garantire il consenso del proprio elettorato di riferimento attorno a riforme impopolari, o magari nella sua capacità di ridurre il danno, senza tuttavia mettere in discussione la direzione di marcia. Intendiamoci: qui non si vuole né sottovalutare il tema dell’affidabilità del Paese rispetto agli investitori, né eludere gli impegni derivanti dalla nostra partecipazione all’Unione e all’eurozona. Si tratta semmai di decidere quale sia lo spazio di manovra, se cioè la necessità di «fare i compiti a casa» debba prevalere su ogni altra considerazione. D’altra parte, la risposta non può esaurirsi nel richiamo appassionato all’Europa, necessario a marcare la distanza dalla destra populista, ma di per sé ancora troppo vago in termini di contenuti. Credo allora che, se c’è spazio per una linea di politica economica progressista, i suoi caratteri debbano ritrovarsi in riferimento a tre temi.

Il primo è quello del lavoro. Si tratta di mettere in discussione l’assunto che crescita e modernizzazione del Paese passino per ulteriori dosi di deregolamentazione del mercato del lavoro. È una visione che non riconosce un ruolo positivo alla stabilità della relazione di lavoro, che pure è la condizione per i necessari investimenti in capitale umano, e quindi associata a maggiore produttività; e che è incapace di comprendere la funzione irrinunciabile delle organizzazioni sindacali, il cui coinvolgimento e la cui responsabilizzazione sono alla base dell’attuale vantaggio competitivo della Germania e dei Paesi nordici.

Il secondo tema è quello del ruolo della spesa pubblica. Non c’è dubbio che essa vada in molti casi riqualificata e rimodulata. Vanno tuttavia rigettate come fuorvianti le rappresentazioni schematiche che contrappongono spesa pubblica e privata ed evocano un inesistente nesso tra riduzione della spesa e crescita. Finanziamento pubblico delle prestazioni (sanità, istruzione, ecc.) significa in molti casi risparmio, e quasi sempre maggiore eguaglianza di accesso. Riduzione del pubblico e flessibilizzazione del mercato del lavoro hanno quale inevitabile effetto l’aumento delle diseguaglianze; troppo a lungo ci si è nascosti dietro al richiamo elusivo all’eguaglianza di opportunità, come se questa fosse raggiungibile senza una decisa azione redistributiva e regolatoria pubblica.

L’ultimo tema è quello del ruolo di indirizzo pubblico nella ridefinizione della nostra vocazione produttiva e nel rilancio dell’innovazione. Ci si è illusi che bastasse un arretramento della mano pubblica per modernizzare la struttura produttiva del Paese. Prigionieri di un liberismo di scuola, si è scambiata ogni azione di politica industriale per dirigismo, rinunciando così a porsi il problema del futuro produttivo del Paese e ad adottare politiche coerenti.

Rispetto a questi tre temi è possibile identificare una linea di azione compatibile con obiettivi di responsabilità fiscale, che non rinunci ad un impulso riformista, ma che allo stesso tempo si distingua da ricette di impronta più marcatamente liberale. Peserà su questo indirizzo il vincolo europeo? Per rispondere, bisogna evitare l’errore ricorrente di pensare l’Europa come un dato immutabile. Meno di un anno fa era fortemente minoritaria l’idea, ormai accettata nelle cancellerie europee, che la crisi dei debiti sovrani originasse da difetti di costruzione dell’eurozona. Contro l’opinione a lungo dominante, c’è sempre maggiore consapevolezza della rilevanza del fattore domanda nella soluzione della crisi. L’Europa si muove, il momento è gravido di rischi ma anche di opportunità per chi voglia esercitare iniziativa politica.