I dati sull’occupazione del recente bollettino Istat, specie nel confronto con quelli dell’anno precedente, sono il riflesso più drammatico del più generale dato economico. Colpisce l’aumento consistente del tasso di disoccupazione, arrivato al 10,7% ma aumentato in modo particolarmente forte per la fascia 24-35 anni, nella quale viene raggiunga la soglia record del 35,3%.

Sono dati che tuttavia non sorprendono. In presenza di politiche fiscali fortemente restrittive, di una politica monetaria che è eufemistico definire prudente, e di una drammatica contrazione del credito, non poteva essere altrimenti. Secondo una certa ortodossia di pensiero, la disoccupazione è anzi un passaggio necessario, seppure doloroso, per arrivare a quella deflazione di salari e prezzi cui l’Europa affida la speranza di una ripresa nei Paesi periferici. L’idea è che l’espulsione dal lavoro in settori a bassa produttività venga compensata, attraverso la riduzione dei salari e quindi dei costi di produzione, da un rilancio del settore dell’export. Tutto ciò non sta accadendo, o sta accadendo in misura molto inferiore a quanto auspicato. Di fronte all’evidente inefficacia delle politiche adottate ci si aspetterebbe, se non una revisione del paradigma interpretativo della crisi, quanto meno una maggiore dose di pragmatismo.

Negli Stati Uniti il riconoscimento che l’elevata disoccupazione sia dovuta a carenza di domanda aggregata è recentemente arrivato persino dall’ex capo dei consiglieri economici del presidente George W. Bush. Si tratta di un’ammissione importante, che giustifica l’adozione di politiche fiscali e monetarie attive di stimolo all’economia. L’Europa sembra invece bloccata nel suo immobilismo. Non solo per una maggiore resistenza culturale, ma anche per vincoli istituzionali (alla Banca centrale europea fu assegnato un mandato ben più ristretto di quello della Federal Reserve americana, che ha tra le sue responsabilità anche il sostegno all’occupazione) e per l’evidente difficoltà ad agire in modo concertato.

Ma la circostanza che più colpisce riguarda gli effetti della crisi in relazione alla struttura per età della forza lavoro. Una generazione impiegata con contratti flessibili sta sopportando in modo sproporzionato il peso della crisi. C’è più di un modo per leggere questo dato. Una possibilità è insistere sulla scarsa «equità» intergenerazionale, invocando un allentamento dei vincoli a licenziare anche per i lavoratori più anziani. In questo modo, così si ragiona, molte imprese preferirebbero liberarsi di qualche cinquantenne poco efficiente a vantaggio di qualche giovane trentenne. Si potrebbe discutere se questa è l’equità cui puntiamo; tanto più che, a meno di continuare a credere che l’attuale situazione sia l’effetto dell’eccessiva rigidità del mercato del lavoro, c’è da ritenere che nella situazione data una maggiore flessibilità porterebbe semmai ad un aumento complessivo della disoccupazione. Per qualcuno questo sarebbe forse un’auspicabile accelerazione del processo di ristrutturazione dell’economia; più probabilmente diventerebbe la premessa di un ulteriore aggravamento della crisi. Se c’è accordo sull’urgenza di disporre di ammortizzatori sociali e politiche attive per l’occupazione che favoriscano il riassorbimento della disoccupazione, i vincoli di bilancio rendono quanto mai arduo il reperimento di risorse, a riprova del fatto che le riforme strutturali in tempi di austerità sono più facili a predicarsi che a realizzarsi.

Colpisce infine che l’unica fascia di età in cui l’occupazione aumenta è quella degli over-50. È chiaro l’effetto della recente intervento sulle pensioni. Nel lungo periodo, quando l’economia viaggia vicino alla piena occupazione, il numero di posti di lavoro non è una coperta corta e dell’aumento dell’offerta di lavoro trae beneficio la collettività; nel breve periodo, quando la domanda langue, l’aumento dell’età pensionabile può facilmente tradursi in minore occupazione giovanile (si pensi, in particolare, alla riduzione del turn-over nella pubblica amministrazione). Il risparmio di spese pensionistiche viene dunque pagato in parte dai giovani che dovevano trarne beneficio, e in parte si traduce in minore produttività del nostro sistema, visto che l’invecchiamento della forza lavoro non favorisce certo l’adozione di tecnologie più avanzate. Effetti prevedibili, che un’attenta analisi costi-benefici dovrebbe considerare, se solo ci si prendesse la pena di guardare all’economia andando oltre un approccio meramente contabile.