Ora che Fiat ha palesato l’intenzione di non tener fede ai programmi di investimento, e si fa strada addirittura il timore di un abbandono dell’Italia da parte dell’impresa manifatturiera nazionale per eccellenza, le reazioni prevalenti dosano in varie combinazioni indignazione e preoccupazione. Indignazione carica di conferme per coloro che possono rivendicare di aver indovinato le intenzioni di Sergio Marchionne fin dall’inizio, a partire da quel grave indizio che fu la mancata presentazione di un piano di investimenti; indignazione mista a imbarazzo per chi con troppa fretta ha concesso credito alle promesse fatte e si sente ora tradito nella propria fiducia.

L’indignazione è comprensibile e giustificata: nonostante le note dichiarazioni di Marchionne, la Fiat ha un debito storico verso l’Italia, che va oltre i contributi a fondo perduto (ora cessati ma copiosi in passato), e chiama in causa la politica dei trasporti (sarà un caso se l’Italia ha avuto per lungo tempo la più estesa rete di autostrade mentre ha sviluppato in modo limitato la rotaia?) o le tornate di incentivi alla rottamazione, a vantaggio di tutti ma indubbiamente di qualcuno in modo particolare. Sostegni che non sono certo una peculiarità del nostro Paese: proprio la risposta del governo Obama alla vicenda Chrysler-Fiat illustra come la crisi in questo settore possa spingere all’intervento governi di Paesi dalla tradizione liberale ben più radicata della nostra.

Quella dell’automobile non è un’industria qualsiasi. La sua capacità di «attivazione» in termini di indotto sia a monte che a valle del processo produttivo, le forti complementarità con produzioni che vanno dalla chimica all’elettronica, la rendono strategica, specie per un Paese a vocazione manifatturiera come il nostro. Le rilevanti «esternalità» positive giustificano il sostegno pubblico, che infatti raramente è mancato, e spiegano il richiamo alla responsabilità sociale di impresa, perché tenga conto di interessi più ampi di quelli dei soli azionisti.

Accanto al biasimo per la Fiat che trova per una volta concordi sindacati, imprese, esponenti del governo e larga parte dei commentatori, non manca tuttavia chi rimprovera al Paese una scarsa sensibilità per le dure «leggi» del mercato. La strategia di Marchionne non sarebbe nient’altro che l’ovvio effetto di un calcolo di convenienza da parte di una multinazionale a fronte delle difficoltà di operare nel nostro Paese; sul banco degli imputati ovviamente il nostro mercato del lavoro, il fisco, la burocrazia.

Grosso modo su questa linea il commento di Alessandro Penati, che su Repubblica osserva come, a fronte della caduta di domanda verificatasi a partire dal 2010 e solo in parte prevedibile, non ci siano alternative alla riduzione di capacità produttiva. Per Penati, in presenza di una crisi che giudica irreversibile, l’unica politica ragionevole è incoraggiare lo spostamento di risorse verso altri settori e aziende a più alta produttività. L’auto sarebbe dunque un settore irrimediabilmente in declino, e miope è la difesa dei posti di lavoro.

È una tesi coraggiosa, ma ci chiediamo se sia ben meditata. Competenze e know-how non si creano da un giorno all’altro, e una volta usciti dal settore ne saremmo irrimediabilmente fuori. Per le ragioni che dicevamo, gli effetti andrebbero ben oltre il prodotto automobile, provocando danni permanenti al tessuto produttivo. È accaduto per la chimica e per l’informatica; prima di infliggere un colpo simile alla meccanica si dovrebbe quanto meno esercitare il principio di precauzione. Tanto più che non sembra questa la strategia perseguita in altri Paesi.

C’è del resto un indizio interessante, cui giustamente allude lo stesso Penati quando provocatoriamente invita la Fiat ad abbandonare, in quanto neppure esse «strategiche», il controllo della Stampa e la partecipazione nel Corriere. Se questo invito non verrà seguito, la ragione è che probabilmente la strategia di Marchionne non contempla un’uscita dall’Italia. Se così fosse, diversa sarebbe stata la risposta di Fiat all’interesse mostrato ad esempio da Volkswagen per acquisizioni di capacità produttiva nel nostro Paese. L’intenzione è allora probabilmente un’altra: ridurre la presenza produttiva senza però abbandonare il campo ad altri competitori; mantenere un presidio limitando al minimo gli investimenti. Una strategia che potrebbe pagare per Fiat ma non certo per l’Italia, che in tal modo si vedrebbe non solo privata del proprio campione nazionale, ma anche preclusa la possibilità di investimenti da parte di altri attori interessati. Un governo attento al futuro industriale del Paese dovrebbe andare a vedere le carte della Fiat, senza abdicare alla propria responsabilità in nome di un astratto richiamo alla libertà del capitale di investire dove meglio crede.