È bastata una battuta, in risposta ad una sollecitazione di Enrico La Loggia, per riempire ieri pomeriggio le pagine on-line delle principali testate giornalistiche. È possibile immaginare di qui alla fine della legislatura un percorso per una prima tappa di riduzione della pressione fiscale? Questa la domanda. La risposta, evasiva, forse persino ironica, del presidente del Consiglio Mario Monti è stata: non lo escludo. Ma tanto è bastato. È la domanda che si stanno ponendo tutti in Italia, aveva chiosato La Loggia.

In effetti, la richiesta di ridurre la pressione sulle imprese era arrivata pochi giorni fa dal presidente di Confindustria Giorgio Squinzi, che aveva lanciato l’allarme sul peso dell’imposizione e la difficoltà delle imprese italiane. Questo nonostante che le imprese siano state le uniche a beneficiare, nell’ultimo anno, di una riduzione delle imposte, attraverso l’introduzione del cosiddetto Ace (l’acronimo inglese sta per Allowance for corporate equity, e indica un sistema per cui una quota dei profitti proporzionale ai nuovi investimenti di capitale paga un’aliquota pari a zero). È vero: i benefici dell’Ace arriveranno a regime poco per volta, e in periodi di scarsi profitti una riduzione dell’imposta che grava su di essi è un sollievo limitato.

Ma allora forse il problema non è la pressione fiscale in sé, ma l’andamento generale dell’economia. Sono gli effetti recessivi derivanti dalla situazione internazionale, dal credit crunch in atto che ha prosciugato i canali di credito all’impresa, e dagli effetti recessivi dei tagli alla spesa da una parte e gli aumenti di imposta dall’altra, introdotti per onorare l’impegno a raggiungere il pareggio di bilancio già nel 2013. Ma si sa, le imposte sono sempre un tema sensibile. Sono da sempre il simbolo e il cardine del rapporto tra i cittadini e lo Stato, e nel rapporto col fisco si scarica per intero la frustrazione e anche la rabbia del cittadino di fronte all’impotenza, e spesso l’arroganza, della politica. E poi, la politica fiscale ha il volto del governo di turno, nome e cognome, c’è una porta cui bussare. C’è più speranza di avere risposta che non prendendosela con la congiuntura internazionale, l’euro, la finanza, i mercati nei Paesi emergenti.

Ma, ragionando a freddo, siamo sicuri che la riduzione delle imposte sia effettivamente oggi, in questa fase di emergenza, l’intervento più urgente? Non è in discussione il fatto che sia in generale auspicabile un minore livello di imposizione. Poniamo una questione di priorità. Ridurre le imposte senza compromettere il percorso di risanamento che è la cifra del governo Monti significa ridurre la spesa, e dunque i servizi pubblici. Significa considerare l’erogazione delle prestazioni dello Stato sociale, il problema degli esodati, i pagamenti arretrati della Pubblica amministrazione alle imprese, la manutenzione delle nostre città, una questione meno prioritaria. Qualora veramente ci fosse lo spazio per farlo, ridurre la pressione fiscale non sarebbe nemmeno la strategia più adeguata a riattivare la domanda. È una cosa che si studia già al primo anno nei corsi di economia (anche se non mancano fantasiose ed elaborate teorie che affermano il contrario): diversamente da un aumento della spesa pubblica, una riduzione delle imposte è meno efficace, perché solo una parte di essa si traduce in maggiori consumi.

Considerare la riduzione delle imposte una priorità risponde semmai ad una certa idea su come uscire dalla crisi, al grido di meno pressione fiscale, e quindi meno spesa pubblica. Non è un grido nuovo, l’abbiamo sentito spesso negli ultimi decenni. Sono i governi conservatori, che ti dicono meno tasse, ma il senso è sempre meno spesa sociale, meno istruzione, meno sanità, crescita delle diseguaglianze.

Il presidente Monti, con il suo sibillino «non è escluso», non ha voluto prendere posizione in modo chiaro. Prudenza riguardo all’impegno di risanamento, certo, ma anche consapevolezza che quella della pressione fiscale non è una questione tecnica, e dunque una risposta adeguata può venire solo nell’ambito di una più ampia indicazione sul destino del Paese, che solo un confronto politico legittimato da un voto può garantire.