Il governo Monti ha rappresentato la condizione necessaria per chiudere l’esperienza del governo Berlusconi (senza un impegno dell’opposizione a sostenere una soluzione di passaggio il Cavaliere difficilmente avrebbe accettato di lasciare la mano). È per questo che verrà ricordato e non si può che partire da questo dato nel guardare indietro ad un anno di governo. Se l’aver restituito un senso di compostezza e serietà all’azione politica e l’averci consentito di recuperare parte importante della credibilità perduta negli anni passati vanno certamente considerati come luci, in questo anno non sono mancate tuttavia le ombre.

Alcune di queste ombre vanno ricondotte all’anomala natura di un governo che, programmaticamente slegato da una precisa maggioranza, è figlio di tutti e di nessuno: un’apparente forza che ha finito per trasformarsi in molti casi in debolezza. Celebrato nel clima montante dell’antipolitica come un governo in grado finalmente di agire politicamente fuori dal condizionamento dei partiti, ha comunque sofferto della necessità di appoggiarsi su una maggioranza molto eterogenea, restando vittima di veti incrociati e ricorrendo in misura abnorme al voto di fiducia. Quando un centrodestra disorientato ma pur sempre maggioritario si è messo di traverso, come nel caso della Rai e dei provvedimenti anti-corruzione, ha dovuto battere in ritirata. A dimostrazione che in democrazia è difficile governare senza i voti.

La sua natura avrebbe dovuto conferire al governo la capacità di compiere scelte anche impopolari, ma l’impopolarità non è stata distribuita in modo uniforme: vittime principali sono stati i lavoratori prossimi alla pensione, il pubblico impiego, i destinatari dei servizi sociali. Il suo essere “tecnico” non ha peraltro cancellato la tentazione di provvedimenti dal carattere elettoralistico (la riduzione/non riduzione delle imposte sul reddito nella recente legge di stabilità ne è un esempio), né ha sopito le ambizioni politiche di un certo numero di ministri di primo piano, né ha infine scoraggiato la pratica di ostentare ottimismo sulle prospettive economiche anche laddove ciò non era giustificato. Ad alcuni tra i ministri più tecnici è poi mancata quella capacità di lettura della situazione reale su cui erano chiamati ad intervenire (si pensi alle gaffes del ministro Fornero o all’uscita sull’orario di lavoro degli insegnanti del ministro Profumo); dimostrando così che governare è qualcosa di diverso dall’essere esperto, richiede una capacità tutta politica di entrare in sintonia con il paese.

Nell’azione economica il governo si è presentato come garante della linea sollecitata dall’asse Merkel-Sarkozy, quella dell’austerità e delle “riforme strutturali” indicate nella famosa lettera della Bce della scorsa estate. Gli aspetti meno digeribili sono stati in parte corretti dall’azione parlamentare del Partito democratico e in parte ammorbiditi nel tempo man mano che si facevano strada i dubbi sull’efficacia della cura. Va peraltro rilevata un’evoluzione delle posizioni assunte dal governo. È difficile sapere se la dichiarata fiducia nell’efficacia di tali politiche, che si diceva avrebbero riportato la fiducia degli investitori, fosse frutto di sincera ingenuità o fosse invece almeno in parte strumentale, nell’attesa di un cambiamento degli equilibri politici (che ha avuto luogo dopo l’elezione di Hollande) e dell’azione risolutiva della Bce. Certo, il Monti che a fine 2011 predicava il valore salvifico dell’austerità e aveva come prima preoccupazione quella di rassicurare il governo tedesco non sembra lo stesso Monti che ritroviamo a fine giugno 2012, a giocare di sponda con Spagna e Francia per ottenere concessioni dalla Germania.

Cosa resterà di questa esperienza? Alcuni tratti dell’azione di questo governo sono acquisizioni irrinunciabili, seppure non del tutto originali: penso all’obiettivo di rafforzare la credibilità di un paese che è tra i fondatori del progetto europeo, che comporta rispetto degli impegni e assunzione di responsabilità. Non altrettanto si può dire di quegli orientamenti in cui è più chiara la matrice moderata-liberale, quali la diffidenza verso i corpi intermedi e la concertazione con le parti sociali; l’obiettivo di deregolamentazione del mercato del lavoro; l’identificazione del risanamento fiscale con la riduzione tout cour della spesa pubblica; il disinteresse per ogni forma di politica industriale, sbrigativamente derubricata come dirigismo; la scarsa attenzione al tema della distribuzione del reddito. Sono questi i punti su cui ci aspettiamo una discontinuità da parte di un futuro governo di centro-sinistra.