In merito all’accordo sulla produttività, sottoscritto dai sindacati con la rilevante eccezione della Cgil, la prima domanda è se affronti in modo adeguato il tema. Va apprezzato che si abbandoni l’assunto fuorviante che fattori cruciali per la produttività siano la flessibilità del mercato del lavoro e la deregolamentazione contrattuale.

Come è ben noto, ben più determinanti per la produttività del lavoro sono le scelte di investimento dall’impresa, la qualità dell’organizzazione, e il livello di capitale umano acquisito nel processo formativo e nell’impresa stessa. Tra gli investimenti, cruciali sono quelli che comportano l’adozione di tecnologie informatiche e della comunicazione. Non più tardi di due giorni fa l’Istat ci ricordava la debolezza del nostro Paese proprio su questo fronte; un’autocritica aperta sarebbe stata forse una richiesta eccessiva, ma per quali ragioni gli investimenti siano mancati anche in anni di credito a buon mercato ed elevati profitti è una questione che meriterebbe maggiore approfondimento.

Il testo dell’accordo ricorda (giustamente) la rilevanza dei fattori «di sistema» (le infrastrutture di trasporto, la logistica, il sistema formativo, la legalità, i costi della burocrazia) e si concentra sull’aspetto decisivo della flessibilità «interna» all’impresa. È benvenuta su questo fronte la disponibilità dei sindacati a mettersi in gioco, accettando di affidare alla contrattazione decentrata la definizione delle modalità di organizzazione del lavoro, compresa la rotazione delle mansioni e gli orari. Occorrerà vigilare per evitare abusi o ripercussioni negative sulla qualità del lavoro (vedi il caso Fiat) ma l’esigenza di modernizzare il sistema produttivo giustifica qualche rischio.

Non mancano tuttavia aspetti più discutibili. Il baricentro della contrattazione si sposta a livello decentrato anche per la determinazione delle retribuzioni. L’idea è che in questo modo ci sarebbe una maggiore aderenza alle specifiche condizioni produttive delle imprese e dei rispettivi mercati. Una tale scelta non è tuttavia priva di rischi: come già è avvenuto in passato, certe imprese potrebbero sfruttare questa possibilità per scaricare sul lavoro carenze di investimenti e capacità innovativa, puntando su una concorrenza basata sul costo del lavoro; ben altro incentivo garantirebbe sotto questo profilo un sistema più centralizzato di fissazione della dinamica retributiva, che aumenterebbe il premio per le imprese più innovative e il ritorno dagli investimenti in produttività. È noto inoltre che la possibilità di controllare in modo centralizzato la dinamica delle retribuzioni sia stato uno dei fattori di successo dell’economia tedesca in un contesto, quello dell’Unione monetaria, in cui la politica dei redditi finisce per operare da sostituto del controllo del tasso di cambio. Imboccare la direzione opposta del decentramento indebolendo il ruolo della contrattazione nazionale è un rischio che i firmatari dell’accordo si stanno assumendo.

C’è poi la questione, su cui l’accordo insiste con forza, della leva fiscale. Accordi aziendali finalizzati ad aumentare la produttività saranno premiati da un trattamento fiscale di favore, visto che le corrispondenti retribuzioni saranno soggette ad un’imposta sostitutiva ridotta. È una soluzione che fa a pugni con qualunque idea di razionalità e trasparenza del sistema fiscale, un’ulteriore erosione dell’imposta sul reddito. Peraltro, è un incentivo a forme di elusione fiscale, visto che lavoratori e imprese potrebbero trovare conveniente spostare (magari con soluzioni «cosmetiche») una parte consistente della retribuzione sulla retribuzione «di produttività». È poi realmente necessario tale incentivo? Si potrebbe sostenere che accordi in grado di aumentare effettivamente la produttività troveranno già in questo il proprio premio; negli altri casi, è giustificato l’impegno di risorse pubbliche?

C’è infine il tema della democrazia e rappresentanza sindacale, enfatizzato dalla Cgil. È chiaro che si tratta di una questione cruciale e non più rinviabile, tanto più urgente nel momento in cui si aumenta il peso del livello aziendale. Una ragione tanto importante da giustificare la mancata firma? Non è facile rispondere. Al di là dei limiti evidenziati, resta l’importanza di un tentativo di praticare la concertazione su un tema tanto cruciale, dopo una stagione in cui le divisioni tra le parti sociali e gli stessi sindacati venivano utilizzate come arma di lotta politica. Da questo punto di vista l’assenza di una firma così significativa come quella della Cgil non è purtroppo di buon auspicio.