L’Europa ha due ricette 17 dicembre 2012

C’è un aspetto che dà il senso dell’evoluzione positiva compiuta dal dibattito politico: il rilievo che ha assunto, anche da noi, il riferimento alle due grandi famiglie europee, quella del Partito popolare e quella dei Socialisti e democratici. Centrodestra e centrosinistra, certo, ma in una dimensione trans- e sovra-nazionale, appunto europea. È un dato positivo: innanzitutto è il segno di come la politica stia progressivamente appropriandosi di uno spazio, quello europeo, ove può effettivamente esercitare un ruolo di indirizzo dei processi in atto. In secondo luogo, l’auspicio è che la dialettica tra partiti tenda sempre di più a somigliare, nel nostro Paese come nel resto d’Europa, alla normale contrapposizione tra conservatori e progressisti. Con buona pace di chi insiste su una presunta anomalia italiana, magari per incoraggiare l’ennesima soluzione tecnocratica o per attribuire ancora una volta alle forze progressiste una missione che non è loro propria.

Un terzo effetto positivo è la difficoltà di continuare ad usare strumentalmente la contrapposizione tra europeisti e antieuropeisti. È chiaro che ci saranno forze populiste (forse alcuni resti dello stesso Pdl) che giocheranno in modo spregiudicato la carta dell’uscita dall’euro, e il loro peso non va sottovalutato. Ma rispetto a tale minaccia, dovrebbe apparire sempre più evidente che il vero confronto non è sull’alternativa Europa sì Europa no, ma su quale Europa uscirà dalla crisi. Popolari e socialisti/democratici non hanno la stessa ricetta e non hanno gli stessi obiettivi riguardo al futuro del modello sociale europeo, ed è giusto che su questo si concentri il confronto. Leggere il confronto politico interno come parte di un confronto più ampio tra diverse famiglie politiche rende cioè più difficile accusare di antieuropeismo ogni critica all’attuale linea di politica economica europea. L’auspicio è che emerga un europeismo «maturo», non acritico, necessario a rifondare l’Unione su nuove basi, a rimettere in discussione la linea di austerità (cosa ben diversa dal non rispettare gli impegni), a trovare forme di condivisione della sovranità sulla politica economica.

Quanto detto non equivale naturalmente ad affermare che perderanno di peso le peculiarità nazionali. Lo stesso Partito democratico, che ha un ovvio legame con i partiti socialisti e socialdemocratici, non è riducibile alla succursale europea di un (astratto) partito socialista europeo; della tradizione progressista esso è chiamato a dare un’interpretazione coerente con la storia delle sue culture fondative e quella del nostro Paese. Inoltre, gli interessi nazionali hanno e avranno presumibilmente ancora a lungo un ruolo, considerando anche che parte del problema riguarda proprio la ripartizione dei costi e benefici tra Paesi creditori e debitori.

Tali contraddizioni, che non vanno negate, sono tuttavia ancora più forti nell’ambito del blocco conservatore. Sarebbe semplicistico pensare che il rigetto dei popolari europei verso Berlusconi sia il solo effetto della scarsa presentabilità del nostro ex premier, trascurando il nodo politico centrale, che è la difficoltà di fare i conti con gli effetti del fallimento delle politiche di austerità e del modo in cui è stata gestita finora la crisi, effetti che generano in seno agli elettori di centrodestra dei diversi Paesi posizioni tanto contrastanti quanto la difesa della linea perseguita finora e il suo totale rigetto.

Pochi giorni fa Wolfgang Munchau, uno dei principali commentatori del Financial Times, scriveva provocatoriamente che la politica aveva finalmente fatto scoppiare la «bolla» di fiducia creata dal governo Monti, e che era tempo che si tornasse anche in Italia a governi politici, per affrontare nodi che nessuna soluzione tecnocratica avrebbe potuto sciogliere. Chissà che non sia una simile valutazione a spiegare la tentazione del presidente Monti di abbandonare l’abito del tecnico per scendere più direttamente nell’agone politico. Se decidesse di farlo riorganizzando il campo conservatore sotto la bandiera del popolarismo europeo e continuando ad interpretare la linea dell’austerità e del «fare i compiti a casa», rassicurerebbe certo la Germania della cancelliera Merkel e parte degli operatori della finanza. Ma su questa linea dovrebbe ottenere il consenso di una parte di elettorato, quello di centrodestra e in particolare del centrodestra italiano, che è più sensibile ai richiami euroscettici. Un compito che non possiamo certo invidiargli.