C’è uno schema Bersani: ottenere la maggioranza per la coalizione di centrosinistra e coinvolgere, attorno ad un progetto di ricostruzione che richiede un consenso ampio, forze politiche moderate di centro. Poi c’è uno schema Monti: quando il professore si appella ai «riformisti» presenti in tutti i partiti, e invoca il taglio delle ali estreme, rivela di voler puntare sull’assenza di una chiara maggioranza al Senato per costringere il Partito democratico a rinunciare al proprio ancoraggio con il mondo del lavoro, e ad alcune istanze più chiaramente «di sinistra».

Tra centrosinistra e centro moderato ci sono indubbiamente dei punti di convergenza. Un saldo riferimento all’Europa e alla necessità di operare per una maggiore integrazione anche fiscale e politica; la coscienza della necessità di una ricostruzione anche civile e morale del Paese; l’avversione alla demagogia, il valore della credibilità dell’azione politica e la ricerca di un confronto improntato al rispetto, pur nelle legittime differenze. Nell’agenda Monti non mancano inoltre indirizzi vicini alla sensibilità dei democratici, quali ad esempio l’enfasi sulla valorizzazione del lavoro femminile. Al tempo stesso, ci sono differenze che non vanno sottovalutate. Queste riguardano anche l’interpretazione delle difficoltà del Paese e le ricette per uscirne.

Non c’è dubbio che i problemi dell’Italia non nascano con la crisi dell’euro, e neppure con la creazione della moneta unica. Il modello di sviluppo del Paese si era inceppato già in precedenza. Un sistema produttivo debole nei settori più dinamici, caratterizzato in molti casi da una dimensione produttiva insufficiente a tenere il passo della concorrenza internazionale; l’incapacità di sostituire la tradizionale presenza pubblica in alcuni settori strategici con un’iniziativa privata all’altezza delle necessità; la debolezza degli investimenti e l’incerta capacità innovativa. Rispetto a tali debolezze, la politica è stata la grande assente nell’ultimo decennio. La crisi dell’euro ha portato alla luce in modo drammatico le nostre insufficienze strutturali, mentre la linea di austerità adottata a livello europeo, lungi dal fornire una soluzione, rischia di compromettere in modo irrimediabile il nostro tessuto produttivo e sociale.

Se questa è la situazione, non esistono scorciatoie o magiche soluzioni. La politica economica dovrà agire su molteplici fronti: si tratta di riproporre una politica industriale, mettere mano alla nostra dotazione di infrastrutture, sostenere la ricerca pubblica e privata, investire nella formazione di capitale umano. Le risorse si possono trovare a livello europeo, e i vincoli di bilancio possono essere opportunamente alleggeriti per lasciare spazio ai necessari investimenti. L’azione dovrà andare ben oltre la dimensione strettamente economica per interessare aspetti quali la legalità, la ricostruzione di un comune senso di appartenenza, il contrasto ad un degrado che è anche civile e morale.

C’è da augurarsi che la campagna elettorale sia all’altezza della sfida, e il confronto vada ben oltre qualche promessa in tema di riduzione delle imposte. Ma, di fronte ad un compito tanto impegnativo per la politica, sarebbe altresì limitante misurare il riformismo a partire da una definizione angusta dei problemi e delle soluzioni, che identifica le riforme strutturali con la liberalizzazione del mercato del lavoro e lo smantellamento del welfare. Sappiamo bene che una certa ortodossia vede quale strada maestra per uscire dalla crisi il recupero di competitività attraverso la deflazione di salari e prezzi. Tale sembra essere, a giudicare da alcuni recenti interventi, la prospettiva entro cui si muove anche il Monti capo della coalizione centrista.

Dietro al termine riformismo si è spesso abusivamente mascherata una riproposizione della classica ricetta liberista. Lungi dal rappresentare posizioni delle «ali estreme», la difesa del lavoro, dell’equità e di un sistema universalistico di protezione sociale sono elementi irrinunciabili dell’azione riformista propria del centrosinistra. In campagna elettorale ci si può permettere qualche affermazione paradossale; ma i conservatori, da che mondo e mondo, stanno dall’altra parte.