Ha da temere il mondo dell’impresa da un’affermazione del centrosinistra? Il prevalere all’interno del Partito democratico di una linea che afferma la centralità del lavoro, la difesa dei diritti e il ruolo dei sindacati, l’alleanza a sinistra con Vendola, sono forse il preludio di una nuova stagione di difficoltà nei rapporti con le realtà produttive del Paese?

Intendiamoci: nessun ritorno ad una lettura dei rapporti tra lavoro e impresa nel segno della contrapposizione tra capitale e lavoro. Anche senza negare la possibilità di una divergenza di interessi, è chiaro che nella sfida in corso, quella per tornare a creare occupazione e benessere, per recuperare uno spazio adeguato nel mercato globalizzato e rimettere in moto l’economia, lavoro e impresa stanno dalla stessa parte. E tuttavia, sembra sopravvivere una diffidenza di fondo. La sinistra – si dice – privilegia da sempre il rapporto con la grande impresa, quella sindacalizzata, con cui è più facile venire a patti. Essa risulta invece estranea a quel magma di piccole e piccolissime imprese che pure hanno un ruolo importante nel nostro sistema produttivo; quel mondo fatto – si dice – di padroncini che sostituiscono il paternalismo al diritto, di realtà produttive che sopravvivono su un confine grigio dove è facile il ricorso al lavoro irregolare e all’evasione.

Rappresentazioni di maniera, cui è facile contrapporre l’immagine di imprenditori poco distinguibili dai loro operai, perché fino a ieri erano anch’essi operai, che si sono messi in proprio e che oggi mettono in gioco anche il proprio patrimonio personale per tenere aperta l’attività, per salvare qualche posto di lavoro. Imprese che sentono di ricevere poco dallo Stato, e per le quali quindi lo Stato si manifesta principalmente per il peso delle imposte. Imprese che sopravvivono solo grazie all’evasione o all’informalità; e quindi, si risponde, imprese che falsano il gioco concorrenziale, frenando la transizione a forme organizzative più efficienti e adatte per dimensione alle sfide della competizione. Già, la dimensione: sappiamo che non sempre è un fattore decisivo, che i casi di successo si trovano anche tra le imprese piccole. Ma sappiamo anche che al di sotto di una certa dimensione è difficile sostenere gli investimenti richiesti dall’innovazione e dalla globalizzazione, e che un sistema così polverizzato fatica ad impiegare ingegneri e tecnici laureati.

C’è, forse, un fondo di verità nella diffidenza reciproca. Ma è su questa diffidenza che ha costruito il suo consenso il centrodestra di Berlusconi. Il messaggio era in fondo chiaro: lo Stato farà poco, ma in cambio vi lascerà fare, anche tollerando e legittimando comportamenti disfunzionali; regole e norme sono vincoli e lacci da rimuovere; rinunciare a governare i processi è la migliore politica.

Quale risposta ha da dare una forza di centrosinistra, per evitare che lo schema si riproduca? Avendo maggiore difficoltà a giocare sulla naturale vicinanza, resta la possibilità di un patto, chiaro, onesto. Da un lato legalità e fedeltà fiscale contro qualità dell’azione pubblica, servizi pubblici adeguati che giustifichino l’elevata pressione fiscale (sono nell’interesse delle stesse imprese una sanità funzionante e poco costosa, un adeguato livello di istruzione, infrastrutture moderne). Dall’altro la promozione della produzione di qualità, dell’investimento e dell’innovazione. Attraverso una politica fiscale che premi la capitalizzazione, nuovi strumenti di credito che finanzino la crescita, una politica industriale che assista specialmente le realtà produttive che hanno più difficoltà a provvedere in proprio ad innovare e a proiettarsi sui mercati internazionali, una politica del lavoro che favorisca l’investimento in capitale umano e quindi una concorrenza giocata sulla qualità invece che sul ribasso dei costi. E poi il piano macroeconomico: allentamento della stretta dell’austerità, ma entro il quadro della permanenza in Europa, contro rischiose e costose avventure che deriverebbero da un abbandono della moneta unica. Conviene, a tutti.