Tutta l’attenzione è puntata sull’urgenza di decifrare i prossimi passi in questo inizio travagliato di legislatura. Non è tuttavia inutile inquadrare i passaggi che ci attendono nel contesto della più complessa partita dell’uscita dalla crisi a livello europeo. L’esito delle elezioni non ha finora provocato sussulti significativi sui mercati, come ci si poteva legittimamente attendere. È come se gli osservatori internazionali fossero assuefatti al lato teatrale della politica italiana; ma non c’è dubbio che vi sia attesa, e il quadro potrebbe rapidamente complicarsi.

Tra i motivi che ci hanno spinto a sostenere con convinzione l’azione del Pd è il fatto che l’agenda Bersani sembrava incarnare al meglio quella linea mediana tra assunzione di responsabilità verso i partner e necessità di imprimere una discontinuità rispetto all’orientamento finora prevalente a livello europeo. Il voto non ha premiato tale indirizzo nella misura sperata, facendo emergere in modo inaspettato una domanda di radicalità. Così interpretiamo il modesto risultato ottenuto dallo stesso presidente Monti, e il successo di un movimento di rottura come il M5S.

Il risultato del M5S può essere letto con riferimento esclusivo ai temi del rifiuto della politica tradizionale, della denuncia dei suoi costi, della richiesta di un radicale rinnovamento del personale e una più profonda domanda di partecipazione democratica. Sarebbe tuttavia molto ingenuo pensare che questi temi siano slegati dalla questione sociale e occupazionale. Se la politica è percepita come costosa è perché la si vede inefficace, incapace di fornire risposte adeguate alla drammaticità del momento. Se questo è vero, è su questione democratica e questione sociale che il Pd è chiamato principalmente ad interrogarsi, se necessario rivedendo le proprie priorità. Non da oggi diciamo che un risvolto pericoloso della crisi è il deficit democratico che essa ha creato, il fatto che il nostro destino collettivo ci sia sfuggito di mano, consegnato ai mercati finanziari o a vincoli esterni presentati come indiscutibili. Quali strade abbiamo dunque davanti?

La prima è quella della continuità, nei contenuti e nella formula: un governo di larghe intese che svolga i «compiti a casa» a suo tempo indicati nella famosa lettera della Bce dell’estate 2011 e fatti propri dall’agenda Monti. Su questo occorre chiarezza: a fine 2011 la scelta del governo Monti si basava su valide considerazioni politiche, ma anche su una premessa economica che nel tempo si è rivelata errata. Mi riferisco all’idea che le riforme chieste dai partner europei avrebbero portato l’Italia a superare rapidamente la crisi. Assieme al senso di responsabilità vi era cioè la speranza che, a scadenza di legislatura, i successi dell’azione del governo sarebbero stati capitalizzati sotto forma di consenso. L’errore di allora è lo stesso che affligge, da qualche anno a questa parte, tutte le previsioni economiche ufficiali: l’austerità non funziona, peggiora le condizioni della finanza pubblica e deprime la crescita. Pensare di proseguire ulteriormente con lo stesso schema nella speranza che tra uno, due, tre anni, la ripresa economica dia un ritorno in termini di consenso è un’illusione. Farlo in presenza di forze politiche disposto a cavalcare senza indugio la disperazione sociale è un suicidio politico.

Occorre però rifuggire anche dall’illusione opposta, quella che sia possibile giocare d’azzardo con questioni delicate come la permanenza nella moneta unica. Non è chiaro quale sia la posizione del M5S sui temi dell’euro, quale l’interpretazione che questo movimento offre della crisi. Bisogna che gli italiani siano consapevoli che un atteggiamento eccessivamente spregiudicato potrebbe avere costi molto elevati. La possibilità che le cose precipitino, rendendo necessaria la richiesta di aiuto alla Bce a condizioni che potrebbero privarci di ogni residuo spazio di azione, non è così remota. È un esito che certi interessi finanziari potrebbero considerare addirittura auspicabile. Il crinale è stretto. Non sembra dunque esserci alternativa alla via mediana tra responsabilità e discontinuità. L’esito elettorale ha indicato che occorre spostare l’equilibrio tra questi due termini a favore del secondo, ma quella via non va abbandonata.