Non un programma di governo, non un manifesto politico, nemmeno una nota descrittiva dei problemi. Il documento del gruppo di lavoro in materia economico-sociale ed europea è presentato come un elenco ragionato di possibili linee di azione, sviluppata per esempi selezionati in base alla loro urgenza e rilevanza.

Chi voglia cimentarsi con la lettura di queste cinquanta pagine più appendice statistica troverà parecchi spunti e indicazioni, su temi che vanno dagli interventi (indicati come prioritari) per la creazione di occupazione e l’emergenza povertà, all’aiuto all’internazionalizzazione delle imprese, all’accesso al credito, all’aumento dell’efficienza delle pubbliche amministrazioni, alla lotta all’evasione fiscale, a interventi per l’istruzione, la tutela della concorrenza e dei consumatori, l’innovazione. In alcuni casi per la verità non si va oltre una generica indicazione sugli obiettivi da perseguire e la direzione da imboccare; in altri si formulano ricette precise. La copertura dei temi è ad ampio raggio: c’è il rispetto degli impegni relativi agli obiettivi di bilancio, c’è l’attenzione alla crescita economica, c’è la consapevolezza dell’emergenza sociale, c’è il tema dell’ambiente. A parte qualche piccola sbavatura (come la riproposizione della questione del divario territoriale Nord-Sud richiamando la discutibile «questione settentrionale»), è difficile non essere d’accordo con la proposte e indicazioni avanzate. Del resto, il documento è unanimemente sottoscritto da personalità rappresentative di diverse ispirazioni culturali e provenienza politica.

Eppure, leggendo, non si riesce a reprimere un certo qual senso di delusione. Sembra pesare innanzi tutto una premessa, solo in parte esplicitata ma chiaramente leggibile in filigrana: l’idea che la politica economica possa al massimo agire sulle condizioni «di contorno» dello sviluppo. Siamo distanti, è vero, dall’idea riduttiva del ruolo delle politiche pubbliche che ha a lungo tempo prevalso anche nel nostro paese; resta tuttavia l’accettazione della «convinzione diffusa, suffragata da studi e analisi, che l’operatore pubblico debba piuttosto togliere che aggiungere», perché «lo sviluppo non lo fanno i governi». È forse questo che spiega una certa timidezza nell’ipotizzare un maggiore ruolo pubblico a sostegno di investimenti strategici nel campo della ricerca e della formazione del capitale umano. Se è vero che la spesa pubblica ha raggiunto livelli estremamente elevati, è difficile immaginare (ad esempio) di ridurre gli abbandoni scolastici senza un maggiore impegno di risorse. Ed è illusorio parlare di rilancio della ricerca senza un’inversione della politica di tagli all’università.

Ben pochi avrebbero da obiettare alla tesi che in generale la crescita, una crescita sostenuta, non si ottiene con la spesa pubblica in deficit; ma tale affermazione andrebbe calata nel contesto congiunturale di un’Europa in deficit di domanda. Specie alla luce del riconoscimento che «la simultanea restrizione fiscale operata in questa fase da numerosi paesi ne ha amplificato le ripercussioni sul ciclo economico, estendendo la disoccupazione, causando tensioni sociali» (una significativa presa di distanza dalle politiche di austerità). Se è importante l’ammissione che il maggiore costo di finanziamento del nostro governo (gli spread) trae origine dalla «rottura della coesione europea» più che dalle vicende contingenti interne al nostro Paese, anche la parte sulle riforme necessarie nell’Unione europea suona forse troppo prudente.

Intendiamoci, il fatto che non si propongano soluzioni taumaturgiche e ricette risolutive (nessuna traccia, ed è una buona notizia, di ulteriori riforme strutturali del mercato del lavoro) è segno di una posizione matura e non ideologica. Il rovescio della medaglia è che nel complesso fatica ad emergere dal documento una chiara direzione di politica economica. Ci chiediamo in conclusione se sia stato utile impegnare autorevoli esperti in un lavoro in buona parte compilativo, visto che molte delle proposte enunciate sono presenti nei documenti programmatici dei partiti e in numerose proposte di legge. Sarebbe stato forse preferibile concentrare le energie per fornire una o più chiavi di lettura della fase in corso; andare oltre l’enunciazione delle nostre debolezze, tentando una diagnosi più approfondita delle ragioni delle nostre difficoltà. Questo sarebbe potuto essere il vero valore aggiunto di una commissione di saggi.

E tuttavia, a pensarci, la nostra delusione non è giustificata. Chi come noi è sempre stato scettico sull’idea che l’uscita dalla crisi possa essere affidata a competenze tecniche politicamente neutrali, non dovrebbe stupirsi del fatto che il documento, pur nella ricchezza di spunti, non arrivi ad indicarci una strada. Dove finisce il documento dei saggi, inizia la politica, ed è di scelte politiche che questo Paese ha maledettamente bisogno.