Prudenza consiglierebbe di attendere, perché in questi casi quasi tutto è nei dettagli, e di dettagli l’informativa del governo è stata piuttosto avara. Ricostruendo dai pochi elementi disponibili, ci è dato di capire che si prospetta uno sgravio di imposta di 1.000 euro all’anno per i redditi da lavoro dipendente inferiori ai 1.500 euro netto mensili (poco meno di 25 mila lordi annui), con un impegno totale di 10 miliardi. La platea dei destinatari consterebbe di 10 milioni di lavoratori, ma tale stima desta perplessità, visto che i lavoratori dipendenti con reddito compreso tra il minimo imponibile e 24 mila euro sono quasi il doppio. È chiaro dunque che qualche ulteriore specificazione è necessaria.

È peraltro discutibile l’esclusione di autonomi e pensionati, già rimasti fuori dal recente più limitato intervento nella legge di stabilità, specie se l’obiettivo è il rilancio dei consumi (i pensionati sono la categoria con la maggiore propensione al consumo). Desta preoccupazione anche il problema dell’incapienza, connaturato alla scelta di intervenire sull’Irpef, visto che resterebbero esclusi totalmente i redditi sotto i 8 mila euro, parzialmente quelli compresi tra 8 e 12 mila euro lordi annui, che pagano meno di mille euro di imposta. Il tema equitativo sarebbe infine aggravato se le esigenze di copertura rendessero problematico a fine anno il rifinanziamento delle spese inderogabili di natura sociale, come la cassa integrazione in deroga o i fondi per la non autosufficienza.

Quello delle coperture è in effetti il punto cruciale, per più di un motivo. Nella ridda di ipotesi e smentite, l’unico riferimento certo sembra essere quello ai risparmi derivanti dalla spending review. Vale la pena di ricordare che la Legge di Stabilità approvata lo scorso dicembre indica per la spending review obiettivi di risparmio (cumulato) pari a 3 miliardi per il 2015, 7 per il 2016 e 10 per il 2017. Obiettivi che sono già contabilizzati nei saldi di bilancio e quindi non sono utilizzabili per sgravi fiscali (nel caso in cui tali obiettivi non fossero raggiunti, scatterebbe anzi una clausola di salvaguardia con aumenti di imposta).

Certo, i risparmi di spesa potrebbero essere superiori al previsto, come suggerisce anche il commissario Cottarelli. Sempre la Legge di stabilità 2014 prevede già un meccanismo di destinazione automatica dei maggiori risparmi a riduzione dell’imposizione sul lavoro. Secondo tale disposizione, concordata con le parti sociali, a partire dall’anno in corso tutti i risparmi di spesa aggiuntivi rispetto agli obiettivi nonché tutti i maggiori proventi derivanti dalla lotta all’evasione devono essere allocati in un “fondo per la riduzione della pressione fiscale”, per essere destinati alla riduzione dell’Irap sul lavoro e alla riduzione delle detrazioni Irpef. Si potrebbe insomma concludere che i casi sono due: o è vero che la spending review porterà a risparmi superiori alle previsioni, ma allora c’è già una legge, introdotta da Letta, che destina tali risorse alla riduzione dell’Irpef e dell’Irap; o tali risparmi non ci saranno, ma allora quella del governo Renzi resta un impegno senza copertura.

È proprio a questo riguardo, tuttavia, che l’annuncio del governo presenta il suo aspetto forse più interessante. Con un po’ di azzardo, si potrebbe infatti ipotizzare che la scelta di lasciare la questione delle coperture così indeterminata, trovando magari soluzioni provvisorie e rimandando alla seconda parte dell’anno una soluzione più convincente, sia deliberata. E che essa sia una scelta dettata non tanto dagli intenti elettoralistici che qualcuno attribuisce al premier, ma dall’intenzione di sfruttare il semestre di presidenza italiana per chiedere con forza, magari in un quadro politico europeo mutato, una revisione degli obiettivi previsti dal fiscal compact. Peraltro, è l’assenza di copertura ciò che potrebbe rendere realmente efficace la riduzione delle imposte ai fini della spinta sulla domanda interna. Accompagnare la riduzione di imposta con una riduzione della spesa pubblica significherebbe infatti mortificarne gli effetti espansivi.

A conforto della nostra ipotesi gioca il riferimento ai margini consentiti dal vincolo del 3%, che il governo Letta decise di non utilizzare per non compromettere il percorso di convergenza al pareggio strutturale di bilancio nel 2016. La volontà di collocarsi su tale limite massimo segnala l’intenzione di rivedere tale scelta. Contro questa interpretazione giocano tuttavia alcune solide circostanze: le rassicurazioni del ministro Padoan sul fatto che manterremo gli impegni con l’Europa; i vincoli che derivano dalla costituzionalizzazione dell’equilibrio di bilancio; l’atteggiamento severo e attento dell’Europa, da cui non sembra plausibile attendersi spiragli.

Eppure, se la nostra ipotesi fosse corretta, avremmo finalmente una svolta rispetto alle politiche di austerità. Sarebbe quella novità che da lungo tempo invochiamo e che, con un pizzico di ottimismo, potrebbe innescare un mutamento di rotta nelle politiche europee.