Che non sia facile capire i termini del confronto tra il governo italiano e l’Europa lo dimostra la varietà di chiavi di lettura che ritroviamo nei titoli dei nostri quotidiani. Da chi sottolinea i sorrisi di sufficienza degli esponenti della Commissione, a chi enfatizza le dichiarazioni fiduciose e sicure del premier, agli interrogativi perplessi dei giornali tedeschi. Non è chiaro se siamo di fronte ad un aspro confronto o magari ad un gioco delle parti che nasconde una sostanziale condivisione di vedute.

Il dubbio ha peraltro una sua base nell’aritmetica dei conti pubblici. Prima di aver letto il Documento di Economia e Finanza atteso per metà aprile, possiamo solo ragionare per deduzioni. Se il quadro dei conti è sostanzialmente quello del governo Letta (ma c’è il rischio che una crescita inferiore al previsto possa consegnarci risultati meno favorevoli); se tali conti già rappresentavano il massimo consentito nel rispetto di un percorso di convergenza al pareggio strutturale di bilancio come previsto dal fiscal compact; se rispetto a tali obiettivi il nuovo governo ha annunciato una riduzione di imposte che comporterebbe già nel 2014 un maggior fabbisogno stimabile, solo per la parte relativa agli sgravi Irpef, in 6-7 miliardi; se le coperture individuate appaiono ancora piuttosto incerte, specie dopo la mezza sconfessione delle ipotesi messe in campo dal commissario Cottarelli: ebbene, se vale quanto detto, allora è difficile credere che rispetteremo tutti gli impegni presi. Il che non significa che, a fronte del riconosciuto fallimento della cura finora somministrata, tali impegni non possano essere legittimamente ridiscussi.

Molto opportunamente è stato ricordato che il dibattito italiano è vittima della confusione tra il vincolo del 3% (il cui mancato rispetto farebbe scattare la procedura di infrazione per deficit eccessivo) e il fiscal compact, che pone un obiettivo di pareggio in termini strutturali e fissa un ambizioso sentiero di riduzione dello stock di debito. Il fatto che rispettiamo il 3% non implica che rispettiamo anche il fiscal compact; anzi, portarsi sul limite del 3 invece che poco sopra il 2,5% come previsto dal governo Letta vuol dire proprio questo: ridiscutere il sentiero di convergenza. Un esito che ci sembra il punto di arrivo inevitabile dei colloqui di questi giorni.

È chiaro come tutto giri a questo punto attorno alle elezioni europee. Nessuno si illude che una vittoria del socialisti possa da sola determinare quel cambio radicale di rotta a lungo invocato. Ne è testimonianza la timidezza della piattaforma di Martin Schulz su molti temi economici. Tuttavia, è lecito attendersi che una commissione a guida socialista possa introdurre interpretazioni meno rigide dei parametri, avvalendosi degli elementi di flessibilità e discrezionalità presenti nei trattati. Con un po’ di ottimismo si potrebbe sperare, se non in una piena golden rule, almeno nella possibilità di escludere alcune spese di investimento dal conto del deficit. Renzi può contare su una certa forza contrattuale, che gli viene dalla diffusa consapevolezza in Europa che un suo fallimento aprirebbe le porte a prospettive ben più incerte sul fronte della fedeltà europea.

Niente di risolutivo, certo. Ma è importante fare almeno qualche passo. Su quale sia la strada per mettere in sicurezza l’euro c’è ormai consenso ampio tra gli economisti, eppure si stenta a procedere. Sull’unione bancaria solo pochi giorni fa ha prevalso ancora una volta la linea minimale voluta dalla Germania. E anche sugli altri fronti (politiche monetarie più espansive che scongiurino il rischio di deflazione, rilancio della domanda nei Paesi in surplus commerciale) non si vedono spiragli. Ciò che manca è la volontà politica, per via dei soliti interessi nazionali ma anche per la convinzione che l’unico modo di curare la crisi sia quello di tenere i Paesi del Sud Europa sotto schiaffo, con l’incombente minaccia di una nuova crisi degli spread.

Da questo punto di vista, le rivendicazioni di orgoglio nazionale da parte del presidente Renzi, a partire dal fatto che non abbiamo nulla da farci perdonare nella gestione recente del bilancio pubblico, non sono solo un tratto del suo stile politico, ma un ingrediente utile sia all’esterno verso i partner europei, sia all’interno. Il nostro dibattito è spesso vittima di una sorta di complesso di inferiorità. In virtù degli innegabili difetti nazionali siamo spesso i primi a non ritenerci legittimati a richiamare i nostri partner alle loro responsabilità. Responsabilità che, è bene rimarcarlo, non sempre sono state esercitate in modo adeguato negli anni passati.