L’affermazione del Pd nelle elezioni europee ha alimentato speranze e riacceso la fiducia. Una legittimazione forte del governo italiano è una condizione importante per affrontare il semestre di presidenza italiano e per restituire al nostro paese un ruolo attivo in Europa. In questi giorni, due segnali ci riportano tuttavia al necessario realismo e ci ricordano la drammaticità della situazione. Ci riferiamo ai dati sull’occupazione e alle raccomandazioni della Commissione europea. Sotto il primo aspetto, si tratta in realtà dell’ulteriore conferma di una tendenza ormai tristemente nota e che non sembra arrestarsi. Il tasso di disoccupazione ha toccato il nuovo record storico del 13,6%, il valore più alto da che hanno avuto inizio le rilevazioni trimestrali Istat. Ma il valore supera ormai il 21% al sud, e il 46% tra i giovani: numeri dietro ai quali ciascuno di noi riconosce nomi e cognomi, realtà di aspettative deluse e progetti di vita non realizzati.

Il secondo elemento, le raccomandazioni della Commissione europea, rappresentano un elemento di contesto non meno rilevante. Si tratta di un passaggio previsto nella procedura di bilancio del «semestre europeo», in risposta alla presentazione da parte dei governi dei rispettivi piani di stabilità e piani nazionali di riforma, che ci richiama agli impegni presi. La Commissione concede all’Italia il modesto scostamento richiesto rispetto al raggiungimento del pareggio strutturale nel 2015, consentendole di rinviare di un anno tale obiettivo (per fermarsi comunque ad uno 0,1% di scarto nel 2015). Al tempo stesso muove una serie di rilievi: giudica ottimistico lo scenario di previsione su cui gli obiettivi sono stati formulati, reputa poco dettagliate le misure indicate per conseguire tali obiettivi, e indica come «non conforme» l’aggiustamento sul fronte della riduzione del debito, chiedendo «sforzi aggiuntivi».

Commentando la situazione economica del paese e dell’Europa, la Commissione non sembra del resto fornire molte ragioni di ottimismo: lo scenario macroeconomico fa sperare in aumenti solo «graduali» dei consumi interni, e comporta un’ulteriore riduzione degli occupati nel corso dell’anno, che dovrebbe spingere ulteriormente in alto il tasso di disoccupazione. A fronte di tali cupe previsioni, da Bruxelles non sembra giungere un messaggio diverso da quello cui siamo stati abituati in questi anni: la cura è individuata ancora una volta nel binomio rappresentato da consolidamento di bilancio e riforme strutturali (leggi: flessibilizzazione) del mercato del lavoro, e a queste ultime vengono affidate le speranze di ripresa. Non manca l’indicazione della necessità di riorientare entrate e spese verso la crescita: spostando il carico fiscale su consumi, immobili e tassazione ambientale; riorientando la spesa verso formazione istruzione e ricerca, verso investimenti infrastrutturali e verso più adeguati ammortizzatori sociali. Come sia possibile finanziare tali necessari interventi o rimodernare la pubblica amministrazione attuando nello stesso tempo la richiesta riduzione della spesa pubblica resta un mistero, che dimostra solo l’astrattezza dell’approccio di Bruxelles.

Il governo italiano ostenta tuttavia una certa sicurezza. Un atteggiamento dettato forse dalla consapevolezza che si tratta degli ultimi atti di una commissione ormai in procinto di essere sostituita, e dall’aspettativa di un cambio, se non di rotta quanto meno di accenti, nelle istituzioni europee. Che sia o no un’aspettativa giustificata, è chiaro che non sarebbe politicamente praticabile un’adesione diligente al sentiero indicato dalla Commissione; il costo politico di una manovra di correttiva di bilancio sarebbe troppo alto, e farebbe evaporare l’attesa di quel «cambio di verso» in Europa invocato con forza nella recente campagna elettorale. Altrettanto improbabile ci sembra tuttavia anche la linea opposta, di sfida aperta alla Commissione e ai fautori dell’austerità. Una sconfessione aperta dell’agenda Monti e della linea della responsabilità di Letta sarebbe un passo troppo azzardato e di rottura persino per chi, come il presidente Renzi, ha mostrato di essere capace di rischiare. Ancora troppo radicata, e troppo in linea con gli interessi nazionali dei paesi più forti, è l’ideologia dell’austerità praticata nelle tecnostrutture di Bruxelles.

Più probabile è che si punti a giocare su quel margine di discrezionalità (o ambiguità) che le regole europee comunque consentono, continuando a dichiararsi fedeli ai trattati ma lavorando per rendere meno stringenti i vincoli meno ragionevoli. Una linea di piccoli passi, non priva di qualche ipocrisia nel dichiarare fedeltà agli obiettivi e al tempo stesso consentire qualche deviazione. Una soluzione che saremmo tentati di dire «all’italiana» se non fosse che all’occorrenza è stata ampiamente praticata anche Oltralpe.