Lo scorso giovedì, con altre dodici persone, per lo più giuristi ed economisti, abbiamo depositato presso la Corte di Cassazione quattro quesiti referendari per l’abrogazione di parte della legge 243/2012, attuativa del cosiddetto «pareggio di bilancio».

Per quanto mi riguarda, non è stata una scelta scontata. Da sostenitore della democrazia rappresentativa quale sono, ho sempre considerato il troppo facile ricorso agli strumenti di democrazia diretta con una certa diffidenza, specie quando riguardava questioni ad elevato grado di tecnicismo. Mi ha tuttavia convinto il ricordo dei modi e le circostanze con cui si arrivò alla decisione di modificare la Costituzione per inserire il pareggio di bilancio. Era il 2012 e su ogni altra considerazione prevalsero la logica emergenziale e la consapevolezza che lo spazio di manovra per il nostro paese di fronte a quanto «ci chiedeva l’Europa» fosse molto limitato. Ciò compresse fortemente il dibattito, impedì ogni confronto sull’opportunità di un passo che pure la stragrande maggioranza degli economisti considerava inopportuno, determinò un coinvolgimento pressoché nullo dell’opinione pubblica nella decisione. Ricordo anche che molti esponenti degli stessi partiti che approvarono la riforma avevano forti perplessità, eppure ben pochi si opposero. Si tratta dunque di restituire ora ai cittadini e alle forze politiche la possibilità di riconsiderare un tema su cui c’è stato un deficit di riflessione.

Il vincolo di pareggio di bilancio, anche nella sua versione «alleggerita» adottata nella nostra costituzione (ove si parla di «equilibrio» più che di pareggio in senso stretto), resta una scelta dettata da una precisa ideologia e visione della politica economica. Mi riferisco alla convinzione, consolidatasi nel trentennio di egemonia liberista nel dibattito economico, che le politiche macroeconomiche di stabilizzazione siano superflue quando non dannose; che non vi sia alcun ruolo positivo per gli investimenti pubblici sulla crescita (in quanto l’investimento pubblico si limiterebbe a sottrarre risorse a quelli privato); che, infine, i problemi dell’Eurozona siano prima di tutto problemi derivanti dalla mancanza di disciplina di bilancio dei singoli paesi. Quest’ultimo aspetto, implicito nella logica del fiscal compact, è particolarmente paradossale, visto che trascura quanto interdipendenti siano ormai le economie dell’area euro, al punto di rendere del tutto illusoria l’idea che un singolo Paese sia in grado di controllare in modo autonomo le variabili macroeconomiche che definiscono i vincoli di bilancio.

La motivazione palesemente ideologica della scelta di inserire il pareggio di bilancio è peraltro evidente nel fatto che la legge di attuazione è andata persino oltre quanto previsto dalla Costituzione e dallo stesso fiscal compact. Proprio su questo punto si innesta l’iniziativa referendaria. È noto infatti che non è possibile sottoporre a referendum né i trattati internazionali né le norme costituzionali; ma se non possono abrogare tout court il vincolo di pareggio di bilancio previsto in Costituzione, i quesiti referendari possono tuttavia intervenire sulla legge attuativa. L’esito positivo dei referendum, per i quali inizierà nelle prossime settimane la raccolta delle firme, non ci esonererebbe dunque dal rispetto delle disposizioni comunitarie, ma eliminerebbe per lo meno i vincoli aggiuntivi decisi dal Parlamento in un eccesso di zelo rigorista.

Un successo dell’iniziativa andrebbe tuttavia ben oltre il mero dato tecnico. Consentirebbe infatti agli italiani di dare un segnale molto chiaro sul fatto che l’Europa che vogliono non è quella dell’ideologia dell’austerità, della svalutazione del lavoro, dello smantellamento del modello sociale europeo. Darebbe loro uno strumento per dire in netto che un cambio di rotta è necessario rispetto alle disastrose politiche di austerità seguite finora nel nostro continente, politiche che sono in parte rilevante responsabili del triste record negativo sulla disoccupazione (passata dal 6,1% del 2007 all’attuale 12,7%), sul tessuto produttivo (quasi tre milioni di imprese cessate in 6 anni), a sul debito, che nonostante il rigore fiscale è ormai arrivato al 132% del Pil. Un accoglimento positivo dei referendum sarebbe di sostegno anche alle iniziative che il governo italiano vorrà assumere nei mesi che abbiamo davanti per cambiare veramente l’Europa.