A distanza di un anno dall’uscita della sua traduzione italiana, ciò che colpisce del libro di Piketty “Il capitale nel XXI secolo” è la dimensione della popolarità raggiunta da un volume non certo di agile lettura, né per dimensione né per complessità del tema trattato. Lo stile accessibile e a tratti brillante certo avrà aiutato, ma la spiegazione va più probabilmente cercata nel fatto che si è trattato, per così dire, del libro giusto al momento giusto. Il tema della diseguaglianza tocca evidentemente, nel dopo crisi, corde molto profonde nel sentimento della classe media dei paesi occidentali. La percezione della crescente diseguaglianza e della sua inaccettabilità è qualcosa di palpabile, e il lavoro dell’economista francese risponde ad una domanda di comprensione delle dinamiche profonde che spiegano tale processo e lo legano allo sviluppo dell’economia capitalista.

La tesi centrale del libro è provocatoria: Piketty prende infatti le distanze dalle descrizioni prevalenti sul rapporto tra distribuzione e sviluppo capitalistico, proponendo al lettore uno scenario tutt’altro che rassicurante riguardo alla capacità dell’economia capitalista di autocorreggersi e limitare gli eccessi di concentrazione della ricchezza. Secondo Piketty, la fase del capitalismo di cui abbiamo avuto diretta esperienza nel dopoguerra, e che condiziona il modo in cui pensiamo all’economia e alla politica economica, non è la condizione “normale” del capitalismo. Al contrario, essa è il risultato di circostanze molto particolari, che sono negli ultimi decenni venute a mancare e difficilmente potranno essere ripristinate in futuro.

Per illustrare la sua tesi, Piketty mette al centro dell’analisi il rapporto tra due variabili, ben note agli economisti: il tasso di crescita dell’economia (del PIL) e il rendimento del capitale. Per secoli la prima (il tasso di crescita) si è mantenuta su valori prossimi a zero ed è stata quindi inferiore alla seconda (il rendimento del capitale). Un divario che è continuato anche nella prima fase del capitalismo, quando la crescita, pur raggiungendo il 1-2% annuo, risultava comunque inferiore al rendimento normale del capitale, pari circa al 5%. Piketty spiega come un tasso di rendimento maggiore del tasso di crescita dell’economia determini una dinamica che, su un orizzonte sufficientemente lungo, porta ineluttabilmente alla concentrazione di grandi fortune patrimoniali, al sopravvento della ricchezza trasferibile (del capitale) sul lavoro, alla concentrazione della ricchezza in mano ad un’élite molto ristretta. Tale concentrazione di ricchezza è ben rappresentata dalla Francia della Belle Epoque, in cui il 90% della ricchezza era nelle mani del 10% più ricco, con il 50% concentrato al 1% più ricco (la concentrazione era ancora maggiore in Gran Bretagna, dove l’1% più ricco possedeva addirittura il 60% della ricchezza).

È a partire dalla Prima Guerra Mondiale che la tendenza descritta si inverte: per un lasso di tempo di sei-sette decenni, il tasso di crescita eccede il rendimento (netto) del capitale. Da una parte la crescita demografica e il progresso tecnico alimentano la crescita economica con ritmi mai riscontrati in precedenza. Dall’altro, è il rendimento del capitale a ridursi sensibilmente. Le due guerre mondiali determinano la distruzione del capitale fisico e finanziario e interrompono in molti casi la trasmissione ereditaria. Nel periodo successivo alla seconda guerra mondiale operano due ulteriori fattori: (1) un assetto istituzionale che limita i rendimenti del capitale: nel dopoguerra, nel sistema di Bretton Woods, i debiti pubblici sono riassorbiti attraverso una più o meno pronunciata “repressione finanziaria”, resa possibile dalla limitazione dei movimenti di capitale; (2) le politiche redistributive, in particolare l’imposta progressiva sul reddito e la costruzione dei sistemi di welfare.

Il persistere di tale nuova situazione determina cambiamenti importanti sul piano distributivo: al culmine di questa fase, all’inizio degli anni Settanta del XX secolo, la quota di ricchezza detenuta dal 10% più ricco è scesa al 50-60%, quella del “top” 1% al 25-30%, mentre la classe media ha avuto accesso ad una quota non trascurabile della ricchezza del paese. La perdita di rilevanza dei grandi patrimoni determina mutamenti sociali di grandi rilevanza: l’ascesa sociale consentita dal lavoro finisce per affiancare quella garantita dall’accesso al patrimonio. Si afferma la convinzione che l’acquisizione di competenze, il merito, possa essere la chiave (o comunque una possibile strada) per far parte della ruling class.

È però nell’ultimo trentennio, a partire dagli anni Ottanta, che l’insieme di condizioni che hanno consentito questa sorta di “età dell’oro” dell’eguaglianza (almeno nel confronto con le epoche precedenti) sembrano esaurirsi. Cambia il segno delle politiche economiche, informate ad un diverso paradigma (il neoliberismo); la globalizzazione, specie quella finanziaria, libera il capitale finanziario dai vincoli, consente rendimenti più elevati e rende il capitale, in quanto mobile, meno tassabile. Rallenta la crescita dell’economia reale.

Si assiste così al ritorno a una situazione in cui il rendimento del capitale eccede in modo significativo il tasso di crescita. Tornano a crescere il rapporto tra ricchezza e prodotto nazionale, la quota di prodotto che va a remunerare il capitale rispetto al lavoro, l’incidenza dei patrimoni ereditati rispetto al risparmio sul totale di ricchezza.

È rischioso lanciarsi in previsioni sul futuro estrapolando le tendenze in corso, ma Piketty argomenta in modo convincente che difficilmente le tendenze attualmente in corso sono destinate a mutare spontaneamente in futuro. In particolare, è difficile immaginare che i tassi di crescita riscontrati nello scorso secolo possano continuare nei prossimi decenni; basti pensare al boom demografico, che sembra essere vicino ad esaurirsi anche nei paesi emergenti (e il cui protrarsi potrebbe porre seri problemi di sostenibilità ambientale).

È possibile contrastare i processi descritti? Non potendo ovviamente augurarci fenomeni distruttivi analoghi alle guerre mondiali, resta la politica economica, cui l’economista francese attribuisce un ruolo molto rilevante. Le politiche specifiche indicate da Piketty sono tipiche politiche re-distributive: le imposte sul reddito fortemente progressive, le imposte sui lasciti ereditari e un’imposta (globale) sul capitale. L’autore è consapevole della difficoltà di attuare tali politiche nel contesto di un’economia globalizzata in cui i capitali possono rispondere ad aumenti della tassazione spostandosi verso paesi meno interessati a redistribuire.

A parere di chi scrive questa parte finale del libro, quella sulle ricette di politica economica, è quella complessivamente meno convincente. C’è al fondo un paradosso nelle indicazioni politiche dell’economista francese: seguendo la sua analisi, in una società patrimoniale è infatti proprio la democrazia ad essere in discussione, visto che essa è catturabile da parte degli interessi del top 1%. In tale contesto, politiche redistributive come quelle ipotizzate rischiano di non trovare il sostegno politico necessario. Le aliquote elevate delle imposte sul reddito in USA e Gran Bretagna hanno resistito per 2-3 decenni prima di perdere il consenso politico, e questo avveniva in una società molto più egualitaria. Perché dovrebbero averne maggiormente oggi?

Il fatto è che una volta che il mercato ha distribuito i propri guadagni, è molto difficile argomentare che questi non spettino a chi li ha ricevuti e quindi ritiene di “meritarli”. Si sa che togliere una volta che si è dato è più difficile. Mi chiedo allora se non vadano considerate altre leve, peraltro già utilizzate in modo ampio e diffuso anche in passato. Leve che intervengono già nel processo di creazione della ricchezza e nei meccanismi di allocazione dei beni. Il termine oggi in voga per indicare queste politiche è pre-distribution.

Alcuni di questi strumenti sono ampiamente citati nel libro: la principale modalità redistributiva nei moderni stati sociali avviene attraverso l’erogazione di importanti beni e servizi “come diritti”, cioè in modo gratuito e universale. Pensiamo al diritto all’istruzione e alla salute.

Ma a ben vedere si potrebbe andare ben oltre, intervenendo ad esempio sulla regolazione dei mercati. Il ruolo svolto, nell’aumento delle diseguaglianze degli ultimi decenni, dalla deregolamentazione finanziaria è ben chiaro, e giustamente sottolineato nel lavoro di Piketty. C’è dunque da chiedersi se non sia tempo per un ripensamento per lo meno sul “quantum” della libertà di movimento dei capitali. Tra i principi dell’UE c’è la libera mobilità dei fattori, ma sappiamo che dietro a questa affermazione formale si nasconde una profonda asimmetria, perché nei fatti la mobilità del lavoro è, per forza di cose, ben diversa da quella del capitale. E mobilità vuol dire forza contrattuale, vuol dire capacità di sfuggire alla tassazione.

Ma c’è un ulteriore aspetto che a mio avviso non è sufficientemente sviluppato nel libro, ma che ritengo sia centrale per capire i processi in atto. Un fattore cruciale di crescita del rendimento del capitale e delle disuguaglianze nella fase che stiamo vivendo è la concentrazione della proprietà immateriale e intellettuale e del controllo dei flussi di informazione. I grandi profitti, le cifre da capogiro, sono sempre più associate all’acquisizione di brevetti e alla concentrazione della conoscenza in poche mani private. La conoscenza è ricchezza e la ricchezza è sempre più privata, perché sono stati rafforzati gli strumenti di controllo proprietario sulla conoscenza (la brevettabilità estesa ben al di là di ciò che era tradizionalmente consentito).

Qui vedo lo spazio per un’azione politica incisiva: quella per una socializzazione della conoscenza e della proprietà intellettuale, che ne impedisca la concentrazione. Anche in questo caso, non una redistribuzione ex post, ma un’azione sulle condizioni che, restringendo l’accesso ai frutti dell’innovazione e al monopolio dell’informazione, consentono di concentrare ricchezza. La difesa della natura pubblica della conoscenza potrebbe essere il veicolo principale per evitare la preoccupante dinamica paventata da Piketty.