L’articolo/manifesto di Pierluigi Bersani, pubblicato il 29 dicembre su Il Campo delle Idee merita una risposta, per diversi motivi. Il primo è la stima per la l’ex segretario del Pd, politico di spessore, aperto al confronto e mai superficiale. Il secondo è che l’articolo propone un discorso articolato e non sloganistico sulle prospettive di una sinistra di governo, partendo da un’analisi degli errori fatti e dei possibili rimedi nella difficile situazione attuale.

Da questo punto di vista, dico subito che l’intervento mi pare senz’altro un passo avanti, ma lo reputo non sufficiente in quanto viziato da una certa reticenza.

Cominciamo da quello che ho apprezzato. Bene la denuncia del divario tra narrazione ottimistica e ingannevole, sostenuta da precisi gruppi di potere economico politico e mediatico, e realtà della situazione del paese. Bene il riconoscimento che stiamo vivendo un “passaggio di fase”, che ha una triplice dimensione: internazionale (il ripiegamento della globalizzazione), europea (la “disunione”) e nazionale (i “nostri problemi” di carattere strutturale).

Su ciascuno dei tre punti c’è tuttavia a mio avviso un’eccessiva prudenza, che rivela forse una limitata comprensione della portata del passaggio, o una difficoltà ad abbandonare l’impianto concettuale di una stagione politica di cui Bersani è stato uno dei maggiori protagonisti.

Rispetto alla globalizzazione, Bersani esprime un giudizio positivo: “la globalizzazione ha fatto avanzare il mondo nel suo complesso”, anche se ha prodotto alcune scorie. Queste sarebbero rappresentate dalla finanza non governata, dalla disciplina dei diritti di proprietà intellettuale, dalla gestione dei flussi migratori, dalle guerre, nonché dalla diseguaglianza crescente nei paesi sviluppati.

Mi chiedo se veramente sia una lettura corretta quella che vede questi effetti come meri incidenti di un percorso giudicato comunque come un progresso; o se invece non sia necessario riconoscere che quelle scorie sono in realtà elementi costitutivi della globalizzazione economica neoliberista. Questa non è un processo naturale o “esogeno”, ma il risultato di scelte politiche precise; un processo che nella sua dimensione economica è probabilmente andato troppo in là (it’s gone too far, per usare le parole dell’economista Dani Rodrik), per cui è venuto il momento di porre dei freni e delle limitazioni, ad esempio, alla mobilità dei capitali, e di ragionare di standard sociali e ambientali alla circolazione delle merci e dei servizi. Anche sul fatto che nel mondo sia stata la globalizzazione a far emergere enormi masse dalla povertà potremmo discutere.

Con riguardo all’Europa, è apprezzabile che Bersani affermi che in parallelo con la globalizzazione “è cominciata anche la concorrenza interna all’Europa, una corsa a chi sapeva smontare più pezzi del modello fiscalità-welfare-diritti del lavoro”, che ne ha messo in discussione il modello sociale e che ha generato disunione.

Ma nulla si dice su quali siano state le scelte che questo processo hanno favorito. A partire dalla creazione del mercato unico, dell’adozione dell’euro, dell’allargamento ad Est dell’Unione. Tutte scelte della quale la sinistra è stata entusiasta promotrice. La necessaria autocritica non c’è, o se c’è molto, troppo, implicita.

Più condivisibile è la lettura che Bersani dà dei problemi strutturali nazionali, a partire dal dualismo Nord-Sud per finire con la debolezza della coscienza nazionale. Ma su quest’ultimo punto sarebbe interessante domandarsi quanto il nostro tradizionale europeismo (oggi poco più di un ricordo) non fosse alla fine che il riflesso della nostra sfiducia in noi stessi e nei nostri concittadini e nella capacità di autogovernarci. Sfiducia che alla fine ci ha fatto accettare di buon grado la logica del “vincolo esterno”.

Dunque? Bersani correttamente indica la necessità di una strada diversa, perché “quella che abbiamo imboccato e continuiamo a seguire è sbagliata. Non per i piccoli passi, proprio per la direzione”. Sull’urgenza di una discontinuità non potrei essere più d’accordo. E mi ritrovo anche sui tre campi di azione individuati da Bersani:

  1. Riprendere in mano i diritti del lavoro, per dare dignità e sicurezza e per questa via rilanciare anche la domanda e, quindi, la crescita.
  2. Ridurre la forbice sociale attraverso progressività fiscale e welfare universalistico che garantisca i bisogni essenziali “a cominciare dalla salute”.
  3. Il ruolo del settore pubblico attraverso un nuovo ciclo di investimenti pubblici orientati alla modernizzazione dell’apparato produttivo

È un programma che sottoscriverei domani.

Bersani mostra tuttavia nella conclusione dell’articolo un eccesso di prudenza. Ne risultano alcune note stonate. Come quando rivendica in qualche modo la stagione della “terza via”, limitandosi a dire che era vincente in altre fasi invece di denunciarne la subalternità al neoliberismo.

O quando ripropone le virtù della disciplina di bilancio e lo slogan del debito che ricade “sulle spalle dei nostri figli”, come se sui nostri figli non ricadesse pesantemente anche l’attuale fase di stagnazione dovuta alle politiche di consolidamento fiscale. Dice: indebitamento “solo per gli investimenti utili”; così si distanzia certo con la logica del pareggio di bilancio, ma rivela la sua diffidenza verso un approccio più keynesiano (recentemente riabilitato anche da economisti mainstream come De Long e Summers).

O quando infine rivendica che la sinistra non è anti-establishment perché “con l’establishment ci parla, ci deve parlare”. Capisco quel che vuole dire, ma forse non è questo il distinguo di cui c’è bisogno oggi, visto che negli ultimi decenni a forza di parlare con l’establishment la sinistra ci ha preso gusto, finendo per rappresentare più gli interessi della finanza che quelli del lavoro.

Sarebbero comunque limiti veniali, se alla fine della lettura non mi restassero due dubbi decisivi. Il primo è che quei tre punti condivisibili di programma non sono attuabili nell’ambito dell’attuale assetto europeo, e quindi vorrei che Bersani ci spiegasse come intende “rompere” con tale quadro di vincoli, avendo ammesso che non saranno pochi decimi di margine di flessibilità a fare la differenza. Se fosse al governo intenderebbe mettere in discussione l’assetto dell’eurozona? Fino a che punto? Non crede che, al di là dei vincoli di bilancio esplicitati nei trattati, sia lo stesso sistema di cambi irreversibili — cioè l’euro — a costringerci alle politiche di svalutazione del lavoro e di austerità? Su questo punto purtroppo nemmeno una parola.

Il secondo punto è la possibilità che sia il Partito democratico a guidare questa svolta. Un partito i cui dirigenti, nonché una parte consistente degli elettori, ha sposato in pieno la linea che ora Bersani sembra criticare, e ha sostenuto con entusiasmo la “novità” rappresentata dal governo Renzi. Pensa veramente Bersani che tale partito possa essere riconquistato e spinto ad una svolta così netta di politica economica? E soprattutto, pensa che a quel punto gli elettori riconosceranno ancora una credibilità al partito del Jobs Act, della “Buona scuola” e del maldestro (e fortunatamente fallito) tentativo di stravolgere la nostra Costituzione?