L’autosufficienza nazionale (National Self-Sufficiency) è il titolo di un saggio che il grande economista inglese scrisse nel 1933 per la Yale Review. Il mondo era ancora sotto l’effetto della Grande Crisi del 1929 e di lì a poco Keynes avrebbe pubblicato la sua Teoria Generale, destinata a rivoluzionare l’analisi e la politica economica. Sono gli anni in cui va definitivamente in crisi il sistema del gold standard e in cui molti paesi, inclusi il Regno Unito e gli Stati Uniti, cercano di rilanciare l’attività economica anche attraverso l’introduzione di tariffe e altre misure protezionistiche.

Keynes non era mai stato un liberoscambista puro. Ma il saggio è interessante perché la giustificazione che egli propone di un regime di (relativa) chiusura agli scambi con l’estero non si basa su considerazioni strettamente economiche. Egli dichiara anzi di ritenere perfettamente validi i presupposti teorici della teoria dei vantaggi comparati, ovvero la giustificazione economica standard della superiorità di un regime di apertura commerciale. Da questo punto di vista, egli si limita a considerare che con lo sviluppo del capitalismo i vantaggi di un’accresciuta specializzazione delle economie sono probabilmente più limitati di quanto non fossero in passato.

La questione viene invece spostata su un piano più generale. Secondo la visione ottocentesca dell’economia, ci spiega Keynes, era opinione comune che ogni opposizione al libero scambio fosse frutto di ignoranza ed egoismo, in quanto il laissez faire avrebbe portato ad un’ideale divisione del lavoro internazionale, e consentendo di sfruttare al meglio le risorse avrebbe risolto il problema della povertà a livello mondiale; di più: esso avrebbe fatto avanzare la causa della libertà, dell’iniziativa personale e dell’inventiva, e avrebbe assicurato la pace, la concordia e la giustizia tra nazioni. Keynes non poteva immaginare che tale visione “ottocentesca”, tale fede nella superiore capacità del mercato come criterio di organizzazione, sarebbe tornata ad essere dominante prima della fine del secolo.

Quali sono dunque le obiezioni di Keynes rispetto a tale ottimistica prospettiva? Principalmente due. La prima riguarda il tema della pace. Era stata, ed è tuttora, dottrina diffusa l’idea che l’integrazione economica, la commistione e l’intreccio degli interessi, avrebbero reso difficile, se non impossibile, la guerra. Lo scoppio della Prima Guerra mondiale, avvenuto al culmine di un periodo di crescente interdipendenza economica tra nazioni, aveva già smentito nei fatti questa congettura.

Oggi siamo pacifisti con una tale convinzione che se l’internazionalismo economico potesse convincerci su questo punto, riavrebbe immediatamente il nostro sostegno. Ma non sembra così ovvio che la concentrazione delle energie della nazione nella conquista di quote di commercio estero, l’interferenza nella struttura economica di un paese da parte delle risorse e l’influenza di capitalisti stranieri, e la stretta dipendenza dela nostra vita economica dalle fluttuazioni delle politiche economiche degli altri paesi siano una salvaguardia e un’assicurazione adeguata per la pace internazionale. È più facile, sulla base dell’esperienza e di quanto possiamo prevedere, sostenere semmai il contrario. La protezione degli interessi di un paese all’estero, la conquista di nuovi mercati, il progredire dell’imperialismo economico – sono questi elementi inevitabili di uno schema di cose mirante alla massimizzazione della specializzazione internazionale e alla massima diffusione geografica del capitale, a prescindere dalla nazionalità dei suoi proprietari. Spesso politiche economiche interne desiderabili potrebbero essere attuate più facilmente se il fenomeno noto come “fuga di capitali” potesse essere escluso. Il divorzio tra proprietà e responsabilità nella gestione di un’impresa è già un problema serio all’interno di un paese (…). Ma quando lo stesso principio si applica a livello internazionale esso diventa, nei momenti difficili, intollerabile. (…)

Simpatizzo pertanto con coloro che vorrebbero ridurre al minimo, invece che massimizzare, l’interdipendenza economica tra nazioni. Le idee, la conoscenza, la scienza, l’ospitalità, i viaggi – queste sono le cose che dovrebbero per natura essere internazionali. Ma lasciamo che le merci siano prodotte internamente quando è ragionevole e conveniente, e soprattutto facciamo che prima di ogni cosa sia nazionale la finanza.

E dunque:

sono incline a credere che (…) una maggiore auto-sufficienza nazionale e un maggiore isolamento economico tra paesi rispetto a quello esistente nel 1914 possa servire la causa della pace, piuttosto che il contrario.

Ma ancora più interessante è forse la seconda obiezione. Il capitalismo “decadente, internazionale ma individualistico” — rileva Keynes — non è un successo, non è né giusto né virtuoso. È per questa ragione che molti paesi, in relazione ai rispettivi temperamenti e contesti storici, stanno avviando esperimenti politico-economici che da tale modello prendono le distanze. Keynes sta chiaramente pensando anche alla Russia, all’Italia del fascismo e alla Germania di Weimer ormai arrivata al capolinea, e guarda a questi “esperimenti” con preoccupazione e senza simpatia. Ma il suo punto vuol essere più generale: ciascun paese ha la legittima aspirazione a sperimentare modelli alternativi a quello del capitalismo concorrenziale basato sul laissez-faire. Ciò vale anche per la sua Inghilterra, per la quale Keynes propone politiche innovative:

Mi sono convinto che il mantenimento di un’economia basata sull’impresa privata sia incompatibile con il grado di benessere materiale che il nostro grado di sviluppo tecnologico ci consente, a meno che il tasso di interesse non scenda ad un livello molto più basso di quello consentito dall’operare delle forze naturali di mercato secondo le vecchie linee. (…) In un sistema nel quale il tasso di interesse raggiunge un livello uniforme (…) in tutto il mondo sotto l’effetto delle normali spinte finanziarie, è impossibile che ciò accada.

In queste parole c’è un assaggio di quanto egli svilupperà nella sua Teoria generale, e vi traspare la consapevolezza della difficoltà di realizzare politiche di rilancio della domanda in un contesto di piena integrazione dei mercati dei capitali. Ma, come dicevamo, il punto è più generale.

La mia tesi centrale è che la prospettiva per la prossima generazione non sia quella di un sistema economico uniforme a livello mondiale, come è esistito nel XIX secolo; dobbiamo essere tutti quanto più possibile liberi dalle interferenze dai cambiamenti economici che intervengono altrove, per sperimentazione ciò che desideriamo al fine di raggiungere il nostro ideale sociale di repubblica futura; e un deliberato avvicinamento ad una maggiore autosufficienza nazionale e a un maggiore isolamento economico, nella misura in cui sarà possibile conseguirli senza costi eccessivi, renderà tale compito più semplice.

Rispetto a queste tesi dell’economista di Cambridge sono possibili molte risposte. Quella più semplice è ritenere che tali posizioni siano nient’altro che il riflesso di un momento storico molto particolare, in cui non era ancora chiaro neppure agli intellettuali più illuminati quali sarebbero stati gli esiti drammatici di alcuni di quegli “esperimenti”. Quasi ottantacinque anni ci separano da quello scritto, e questo ci dà un indubbio vantaggio rispetto a Keynes in termini di prospettiva storica.

Ritengo tuttavia che i due argomenti presentati, sugli effetti dell’integrazione economica sulla pace e sull’autodeterminazione economica, conservino tuttora una validità che sarebbe sbagliato trascurare. Accanto ai mutui vantaggi per i partecipanti, la rimozione delle barriere allo scambio e la conseguente estensione del mercato portano con sé infatti anche relazioni di potere e di dominio tra nazioni e tra popoli, che possono creare risentimento o senso di oppressione, e quindi creare terreno fertile per l’accendersi dei conflitti. Pensiamo, senza andare troppo lontano, al riemergere di certi stereotipi ostili tra la Germania e i paesi del Sud Europa in conseguenza della crisi dell’eurozona.

La fede nei benefici della globalizzazione economica è parente stretta dell’idea che il capitalismo globalizzato sia il miglior sistema ipotizzabile; essa non riconosce il valore della “biodiversità” di modelli di capitalismo, non concepisce la possibilità di una convivenza tra una pluralità di modelli di sviluppo, la possibilità di sperimentare diversi compromessi tra crescita, equità, pace sociale, coerenti coi diversi contesti culturali. La possibilità insomma che la storia non sia finita. E nemmeno la geografia.