All’euro si possono fare tutte le critiche, ma che con la moneta unica il costo di sostenere il nostro debito pubblico sia diminuito in modo consistente è qualcosa che proprio non è possibile negare. O invece sì?

Per affrontare il problema è necessario entrare nel dettaglio, un po’ tecnico, della relazione tra interessi, deficit ed evoluzione del debito. Partiamo dal fatto che la variazione, in aumento o in diminuzione, dello stock di debito (indichiamo con \(B_t\) il livello di debito all’anno t) dipende da due fattori: l’interesse che dobbiamo pagare sul debito cumulato, cioè l’eredità del passato, e il saldo tra entrate e spese, noto come saldo primario. Ovvero, in formule:

\[\underset{\text{variazione debito}}{B_t - B_{t-1}} = \underset{\text{spesa per interessi}}{i \cdot B_{t-1}} - \underset{\text{saldo primario}}{S_t}\]

La formula ci dice che se vogliamo che lo stock di debito non cresca (termine di sinistra pari a zero), il saldo primario deve assumere un valore positivo (cioè le entrate devono superare le spese al netto degli interessi) e deve essere pari almeno alla spesa per interessi. Maggiore è la spesa per interessi, maggiore sarà lo sforzo fiscale necessario per evitare un aumento del debito. La spesa per interessi è data dallo stock di debito cumulato fino a quel momento moltiplicato per il tasso di interesse. Seguono alcune importanti consequenze.

La prima è che, quando la spesa per interessi è molto elevata, e un paese non riesce ad avere un avanzo primario sufficiente, il debito cresce, determinando a sua volta un aumento della spesa per interessi nei periodi successivi, in una spirale che in certi casi può andare fuori controllo mettendo in dubbio la solvibilità del paese.

La seconda è che le variazioni del debito pubblico non sono un effetto meccanico della politica fiscale (spesa pubblica e imposte, che determinano il saldo primario), ma dipendono anche dal tasso di interesse, e quindi dalla politica monetaria e, quando i capitali sono liberi di circolare, dall’andamento dei tassi di interessi a livello mondiale. L’elevato livello dei tassi di interesse è un fattore di rischio tanto rilevante quanto lo scarso controllo della finanza pubblica.

Vediamo dunque qual è stato l’andamento del tassi di interesse sul debito pubblico a partire dalla fine degli anni Ottanta per l’Italia (dati Eurostat).

Interesse in Italia

Nel grafico abbiamo evidenziato due date: il 1999, anno di adozione dell’euro, e il 2008, anno in cui ha avuto luogo la crisi finanziaria. Tali date identificano dei veri e propri cambi di regime nell’andamento dei tassi di interesse. Prima del 1999 i tassi di interesse erano molto elevati e variabili, e questo per diverse ragioni, tra le quali una più alta inflazione e la volatilità del cambio della lira, che determinava rischi di svalutazione. Nel periodo successivo (per la verità già prima del 1999) c’è stata una drastica stabilizzazione del tasso di interesse, che si è allineato con quello del resto dell’eurozona, riflesso della stabilità monetaria ottenuta con l’aggancio all’euro. La situazione è cambiata nuovamente con l’emergere della crisi.

Può essere utile mettere a confronto l’andamento del tasso italiano con quello di altri paesi. Ho scelto altri due paesi dell’eurozona: la Francia (economia di dimensione paragonabile alla nostra) e il Belgio (economia più piccola, ma caratterizzata già negli anni Novanta da un debito pubblico molto elevato). Vediamo che l’andamento dei tassi di interesse di questi paesi è molto simile a quello italiano, sebbene l’Italia abbia dei “picchi” ben più marcati sia prima dell’euro che nel periodo della crisi debitoria del 2011-12.

Interesse - confronto tra paesi

Merito dell’euro? Sì e no. Ho considerato nel grafico anche tre paesi europei che non hanno adottato l’euro: Regno Unito, Danimarca e Svezia. Come si vede, l’andamento dei tassi è molto simile. Segno di un’integrazione finanziaria che prescinde dall’adesione alla moneta unica. La riduzione dei tassi di interesse a fine anni Novanta è un fenomeno comune a tutte le economie avanzate, anche se i tassi all’interno dell’eurozona si muovono in modo più coordinato.

L’analisi svolta sembra comunque confermare, almeno a grandi linee, la tesi ricorrente che l’euro ci avrebbe aiutato in modo significativo. Il confronto tra i tassi di interesse degli anni Novanta e quelli successivi, compresi i livelli raggiunti nel periodo della crisi, non potrebbe darci una risposta più chiara a questo riguardo. Vogliamo forse tornare ad una situazione in cui pagavamo oltre il 10% di interesse sul debito?

Tale conclusione è tuttavia incompleta e rischia di essere fuorviante. Un’analisi più accurata del problema dovrebbe infatti considerare due ulteriori elementi.

Il primo è la differenza tra tassi nominali e reali, cioè la presenza di inflazione. L’inflazione determina un aumento dei tassi di interesse, ma allo stesso tempo riduce il valore reale del debito. È per questo che si dice spesso che essa sia un vantaggio per i debitori (e viceversa un problema per i creditori). Se consideriamo il tasso di interesse reale (cioè al netto dell’inflazione) il quadro ci appare leggermente diverso rispetto a quanto visto sopra: i valori elevati degli anni Novanta si abbassano perché l’inflazione era più elevata in quel periodo, mentre la situazione è invariata nel periodo dell’euro e in particolare negli anni a noi più vicini, caratterizzati da inflazione vicina a zero o negativa. Ecco dunque che il beneficio dell’adesione all’euro ci appare meno netto.

Interesse - reale

Il secondo elemento, ancora più importante, è il fatto che la sostenibilità del debito pubblico non è mai valutata in termini assoluti, ma sempre in relazione alla dimensione del PIL, il prodotto interno lordo. Tanto è vero che tutti gli indicatori, compresi quelli utilizzati a livello europeo, fanno riferimento al rapporto tra debito e PIL (nonché tra deficit e PIL). Il rapporto debito/PIL si riduce sia in presenza di una riduzione del debito che per un aumento (anche solo nominale) del PIL. Se esprimiamo la formula dell’evoluzione del debito in termini relativi al PIL, abbiamo

\[\underset{\text{variazione del}\\\text{rapporto debito/PIL}}{b_t - b_{t-1}} = (i-n) \cdot b_{t-1} - \underset{\text{saldo primario}\\\text{in % del PIL}}{s_t}\]

dove le variabili con lettera minuscola (\(b_t\), \(s_t\)) esprimono le quantità come percentuale del PIL e n rappresenta il tasso di crescita (nominale) del PIL. Come si vede, al posto del tasso di interesse abbiamo ora il termine i – n, la differenza tra interesse e crescita in termini nominali, spesso indicato come tasso di interesse aggiustato per la crescita. Tale termine tiene automaticamente conto della presenza di inflazione.

Ecco come si presenta l’andamento del tasso di interesse aggiustato per la crescita dal 1990 in poi per il nostro paese (dati annuali).

Interesse corretto per la crescita

La linea rossa rappresenta la media di tale variabile in ciascuno dei tre periodi da noi considerati. La conclusione potrà sorprendere: dopo la crisi, il “costo” di mantenere il debito misurato con questa più corretta metodologia è tornato praticamente ai valori precedenti l’introduzione dell’euro. Si tratta di un effetto dovuto non tanto all’aumento dei tassi di interessi (che anche nel periodo della crisi debitoria del 2011-12 sono rimasti comunque inferiori ai valori degli anni Novanta), quanto alla crescita estremamente modesta, quando non addirittura negativa, del PIL, sia in termini reali che nominali (vedi deflazione).

Da questo punto di vista, il primo decennio di moneta unica può essere visto come una sorta di parentesi felice; in questo periodo, i bassi tassi di interesse hanno consentito all’Italia di ridurre il debito dal 114% del 1998 al 103% del 2007. La domanda è se possiamo tornare ad una situazione altrettanto felice in termini di costo del credito.

Non è facile rispondere. Un tasso di interesse basso accompagnato da un livello di crescita significativa è un miraggio nell’Europa del dopo crisi, e in particolare in Italia. Inoltre, è opinione condivisa che proprio i bassi tassi di interesse, e quindi il credito a buon mercato, nei paesi periferici siano stati una delle ragioni che hanno determinato gli squilibri che hanno dato luogo alla crisi dell’eurozona.

Il mantenimento di tassi di interesse uniformi rifletterebbe la garanzia fornita dalle istituzioni europee (e in ultima analisi dai paesi più solidi, come la Germania), verso paesi meno affidabili. Insomma, un modo indiretto per i primi di accollarsi i debiti dei secondi. Qualcosa che implica un livello di solidarietà e di condivisione dei rischi che i paesi europei non sembrano disposti ad accettare. In quest’ottica, c’è chi sostiene che la situazione fisiologica dovrebbe essere invece quella di una differenziazione dei tassi di interesse tra paesi. Se a questo si aggiunge la prospettiva di una crescita anemica analoga a quella degli ultimi anni, si capisce come la situazione sia probabilmente destinata a non cambiare in modo sensibile.

La possibilità di ridurre il costo del debito fu negli anni Novanta un argomento cruciale per convincere gli italiani ad affrontare i sacrifici necessari ad aderire alla moneta unica. In assenza di tale beneficio, è difficile trovare ragioni economiche che possano giustificare il mantenimento dell’euro da parte del nostro paese; ve ne sono anzi molte che la sconsigliano decisamente. Restano al più ragioni politiche più o meno condivisibili (la determinazione a perseguire comunque il progetto di integrazione europea) e il timore di affrontare i costi reali o presunti dell’uscita dalla moneta unica. Che questo possa bastare come collante è qualcosa che verificheremo nel prossimo futuro.