Perché i moderni sistemi fiscali prevedono una pluralità di imposte? Non è una domanda banale. Se fosse infatti possibile definire in modo univoco la capacità contributiva, e se esistesse un unico parametro per misurarla, potremmo rispondere ad ogni esigenza redistributiva attraverso un’unica imposta calibrata su tale parametro. Ma siccome abbiamo a che fare con strumenti fiscali imperfetti, e siccome la stessa nozione di capacità contributiva ha molte dimensioni e può tenere conto di molti aspetti diversi, converrà ricorrere ad una pluralità di tributi.

Certo, il reddito è un buon punto di partenza per misurare la capacità contributiva; ma vi sono molti tipi di reddito, non tutti ugualmente misurabili e non tutti osservabili con la stessa facilità. Accade così che l’imposta sul reddito sia diventata, anche per effetto di successivi interventi riformatori non sempre tra loro coerenti, un’imposta che colpisce prevalentemente il reddito da lavoro, e in particolare il reddito da lavoro dipendente. Questa è un’altra ragione per la quale può essere utile accompagnare l’imposta sul reddito con altre imposte, che possono integrarla ed esserne il complemento. Si capisce come tali imposte abbiano ragione d’essere in quanto rispondono a criteri distinti e sono fissate sulla base di parametri, quali la ricchezza o il consumo di particolari beni, distinti dal reddito stesso; parametri che “segnalano” la condizione di ciascuno, il suo livello di benessere materiale, e quindi la sua capacità di contribuire con le imposte alle spese collettive.

Una conseguenza di quanto abbiamo detto è che il perseguimento dell’obiettivo di progressività del nostro sistema fiscale (che la nostra Costituzione richiede) non va necessariamente identificato con la previsione di condizionalità rispetto al reddito in ogni singolo intervento. Eppure, è questa l’idea che emerge puntuale ogniqualvolta si parla di imposte. In questo giorni abbiamo ad esempio sentito affermare (da più parti) la necessità di reintrodurre sì l’imposta sull’abitazione principale, ma limitandola ai soli “ricchi” (dove per ricchi si intende coloro che hanno reddito più elevato).

Cosa fa apparire così ragionevole e rende quindi popolare, specialmente a sinistra, l’invito alla selettività? Tralasciando la dimensione demagogico/comunicativa della sua formulazione (il riferimento ai “ricchi” o a non meglio precisati redditi “alti”), ad attrarre è il fatto che essa consenta un allargamento dell’insieme degli strumenti fiscali (imposte non solo in base al reddito, anche al possesso di un bene patrimoniale quale è l’abitazione) e al tempo stesso accentua la progressività rispetto al reddito.

Esaminiamo però la questione con più attenzione. Quale potrebbe essere una valida alternativa a tale proposta? Potremmo operare combinando due interventi: da un lato introdurre l’imposta sull’abitazione principale per tutti, dall’altra modificare l’imposta sul reddito in direzione di una maggiore progressività, vale a dire riducendola per i redditi più bassi e lasciandola invariata (o magari addirittura aumentandola) per i redditi più alti. In questo modo, i redditi bassi dovrebbero pagare una nuova imposta, quella sull’abitazione, ma tale maggior pagamento sarebbe compensato dalla minore imposta sul reddito. I redditi alti, a loro volta, pagherebbero la stessa imposta (o un’imposta maggiorata) sul reddito, oltre a quella sull’abitazione. Il risultato sembra simile, ma c’è un’importante differenza: con la soluzione alternativa da noi immaginata, la proprietà dell’abitazione, contribuisce in ogni caso alla determinazione dell’imposta del nostro contribuente. Vale a dire che se ho un reddito basso e non sono proprietario della mia abitazione (per cui devo sostenere il peso di un affitto) pagherò meno imposte di chi ha un reddito ugualmente basso ma è proprietario. Con la proposta originaria, la casa conta solo per chi ha reddito elevato. Dovrebbe essere chiaro che il principio per cui il possesso di un bene patrimoniale “conta” appare in questo caso più debole, meno nitido, in definitiva contraddetto dalla soluzione adottata.

Ma quello dell’Imu non è l’unico esempio. È di poco tempo fa una levata di scudi contro il cosiddetto “bonus bebè” per il fatto che fosse esteso a tutte le famiglie e non a quelle in difficoltà; ancor prima, analoga obiezione era stata avanzata relativamente al bonus diciottenni. Personalmente, trovo pessima la politica dei bonus adottata dai governi Renzi-Gentiloni, per molti motivi. Tra le possibili obiezioni non trovo tuttavia convincente quella per cui il problema sarebbe la mancanza di selettività dell’intervento, ovvero il fatto che l’erogazione del bonus non sia condizionata al reddito. È una logica, questa della selettività in tema di carichi familiari, che ritroviamo peraltro già presente nel nostro sistema fiscale: si pensi alle detrazioni Irpef per figli a carico, il cui ammontare si riduce al crescere del reddito. Ma introducendo o invocando tali elementi di selettività si cade nello stesso errore sopra evidenziato per l’abitazione principale.

Anche in questo caso, è senz’altro condivisibile la richiesta di maggiore progressività; ma siamo sicuri che sia questo il modo migliore per ottenerla? Il principio che giustifica il provvedimento, quello per il quale non è giusto trattare allo stesso modo dal punto di vista fiscale due famiglie con e senza figli a carico, viene implicitamente negato e quindi indebolito nel momento in cui lo si limita ai soli redditi bassi. È chiaro che la previsione della detrazione (o del bonus) per tutte le famiglie e non solo per le meno abbienti avrebbe un maggiore costo in termini di gettito e avvantaggerebbe le famiglie a reddito più elevato; ma a questo esito si può ovviare con un aumento della progressività dell’imposta sul reddito (cioè con aumento dell’imposta sulle famiglie a reddito medio-alto), che rappresenterebbe la contropartita dell’estensione della detrazione anche ad esse. Anche in questo caso si otterrebbe lo stesso obiettivo in modo più trasparente ed efficace. Se non lo si fa è perché la selettività è meno visibile (e quindi politicamente meno costosa) dell’intervento diretto sulle aliquote.

Immagino una possibile contro-obiezione a quanto suggerisco: intervenendo direttamente sulle aliquote di imposta sul reddito, finiremmo con l’aumentare il carico fiscale sul lavoro, cosa che vorremmo evitare. Occorre tuttavia capire (il punto non è immediatamente evidente ma è cruciale) che tale aumento ha luogo, in modo indiretto ma non meno reale, anche con la soluzione dell’imposta sulla casa o con la detrazione, quando queste sono condizionate al reddito. Condizionare l’imposta sull’abitazione al reddito, o ridurre (eliminare) un beneficio fiscale quando si raggiunge una certa soglia, significa che tali effetti aggiungeranno il loro peso a quello diretto dell’Irpef su quel reddito. Il percepimento di tale reddito potrà infatti comportare il mancato accesso alla detrazione per i figli (o, considerando altre soglie a noi familiari: il pagamento di ticket sanitari più elevati, il rischio di essere penalizzato nella graduatoria dell’asilo nido ecc.). Se la preoccupazione è l’effetto disincentivante della tassazione del lavoro, la previsione di imposte condizionate al reddito non dovrebbe preoccuparci meno di un aumento diretto della progressività dell’Irpef.

Ma c’è un altro aspetto negativo della soluzione “imposta sulla casa solo per i ricchi” da considerare. Tutto fa pensare che la condizionalità al reddito sarebbe ottenuta fissando una soglia reddituale. Ovvero: chi è al di sopra di un certo limite di reddito paga l’imposta sulla casa, chi è al di sotto non la paga. Il risultato di questa soluzione tutto/niente è che, invece di avere imposte che crescono rispetto alla capacità contributiva in modo per così dire continuo (guadagno X in più, l’imposta dovuta aumenta di una frazione di X), l’imposta aumenterebbe “a salti”. Se sono appena sotto la soglia, basta un aumento di reddito anche minimo per determinare un aumento consistente delle imposte dovute, in misura superiore all stesso aumento di reddito; col risultato di maledire quel lavoro in più, quello straordinario, quell’aumento di stipendio che inizialmente mi era sembrato una buona cosa.

Leggo che la “manovrina” del governo in discussione in questi giorni, dovendo recuperare risorse, prevederebbe l’introduzione di abbonamenti ai trasporti pubblici locali parametrati al reddito (una cosa del genere già accade in alcune regioni, ad esempio la mia Toscana). Il lettore non avrà difficoltà ad applicare il ragionamento sopra sviluppato anche a questo caso. Con un simile intervento si avrà un aumento di fatto della progressività rispetto al reddito, ma limitato a coloro che utilizzano il mezzo pubblico. Il risultato sarà che molti pendolari a reddito non basso potrebbero trovare convenienza a optare per mezzi di trasporto alternativi, la macchina o altro (peraltro, possiamo presumbere che siano proprio quelli a reddito più alto quelli più facilmente attratti da tale alternativa); con buona pace di ogni incentivo a usare forme di mobilità meno inquinante. Non sarebbe meglio, per tutti, se l’obiettivo della progressività rispetto al reddito fosse affidato all’imposta sul reddito, e le altre imposte e tariffe fossero fissate in modo coerente coi rispettivi obiettivi?

Ma, ahimé, per fare buoni interventi fiscali servono chiarezza di visione, conoscenza della logica degli strumenti a disposizione, e capacità di spiegare con autorevolezza e trasparenza le scelte compiute. Condizioni che mal si conciliano con la ricerca del consenso politico immediato e una comunicazione fatta di facili slogan.