Ho riletto un brano che considero profetico, visto che risale al 1997. Colpisce la lucidità con la quale si descrivono scenari che sarebbero risultate evidenti solo successivamente (e ancora non sono evidenti a moltissimi intellettuali). Lo ripropongo tradotto da me in italiano in questa fine d’anno 2017. Le informazioni sull’autore e sul testo le trovate in calce. Buona lettura!

La globalizzazione sta producendo un’economia mondiale nella quale ogni tentativo di un paese di evitare l’impoverimento dei suoi lavoratori ha come risultato quello di togliere loro il lavoro. L’economia mondiale sarà presto governata da una classe dominante cosmopolita che non ha verso i lavoratori di qualunque paese un maggiore sentimento di comunanza di quanto non ne avessero i grandi capitalisti americani del 1900 verso gli immigrati che lavoravano nelle loro imprese. (…) Questo preoccupante cosmopolitismo economico ha, come sottoprodotto, un attraente cosmopolitismo culturale. Plotoni di giovani e vivaci imprenditori riempiono la Business Class dei voli transoceanici, mentre i posti dietro ai loro sono occupati da panciuti professori come me, che passano da una conferenza interdisciplinare all’altra in località amene. Ma il nuovo cosmopolitismo culturale è limitato al venticinque per cento degli americani. Il nuovo cosmopolitismo economico prepara un futuro nel quale il rimanente 75% vedrà il proprio tenore di vita ridursi. È probabile che l’esito sia un’America divisa tra caste sociali ereditarie. L’America sarà retta da quella che Michael Lind (in The Next American Nation) ha battezzato “sovraclasse”, il 25% più istruito e meglio formato. (…)

È come se, in qualche momento intorno al 1980, i figli di coloro che erano passati per la Grande Depressione ed erano cresciuti nelle periferie urbane avessero deciso di tirar su il ponte levatoio dietro di loro. Sebbene i loro genitori avessero tratto vantaggio della mobilità sociale, essi non avrebbero concesso questa stessa possibilità alla generazione successiva. Questa élite cittadina non sembra vedere niente di sbagliato nel fatto di appartenere ad una casta ereditaria, e ha dato inizio a ciò che Robert Reich ha chiamato “la secessione di chi si è affermato”. (…)

Se la formazione di caste ereditarie proseguirà senza ostacoli, e se le pressioni della globalizzazione creeranno tali caste non solo negli Stati Uniti ma in tutte le vecchie democrazie, l’esito sarà un mondo orwelliano. In un mondo siffatto, potrebbe non esserci un corrispettivo sovranazionale del Grande Fratello, o un credo ufficiale analogo al Socing, ma vi sarà qualcosa di simile al Partito Interno: i super-ricchi internazionalisti e cosmopoliti, che prenderanno tutte le decisioni importanti. L’analogo del Partito Esterno orwelliano sarà una classe di professionisti cosmopoliti istruiti e benestanti – la “sovraclasse” di Lind, le persone come voi e come me.

Il mestiere di quelli come noi sarà far sì che le decisioni prese dal Partito Interno siano attuate in modo fluido ed efficiente. Sarà nell’interesse dei super-ricchi garantire alla nostra classe una relativa prosperità e benessere, perché hanno bisogno di persone che facciano finta di essere la classe politica dei diversi stati nazionali. Per tenere buone le masse, i super-ricchi dovranno mantenere viva l’illusione che le politiche nazionali possano un giorno fare la differenza. Dal momento che le politiche economiche sono una loro prerogativa, incoraggeranno i politici, sia di destra che di sinistra, a dedicarsi alle grandi battaglie culturali. L’obiettivo sarà quello di distrarre l’attenzione delle masse, tenere il 75% meno abbiente degli americani e il 95% meno abbiente della popolazione mondiale occupata nelle ostilità etniche e religiose, e nelle discussioni sulle abitudini sessuali. Se le masse possono essere distratte dalle loro afflizioni da pseudo-eventi creati dai media, inclusa di quando in quando qualche breve e sanguinosa guerra, i super-ricchi avranno ben poco da temere.

Di fronte a questo scenario, sono possibili due risposte da parte della sinistra. La prima è insistere sulla necessità di ridurre le diseguaglianze tra nazioni, incoraggiando l’Emisfero Nord a condividere la propria ricchezza con il Sud. La seconda è insistere sul fatto che la responsabilità primaria di ogni democrazia nazionale è verso i suoi cittadini più svantaggiati. Le due risposte ovviamente confliggono: in particolare, la prima risposta implica che le vecchie democrazie debbano aprire i loro confini, mentre la seconda suggerisce che debbano chiuderli.

La prima risposta risulterà ovvia per la sinistra accademica, che ha sempre avuto una visione internazionalista; la seconda risulterà naturale ai membri dei sindacati, e alla parte più marginale dei lavoratori, più facilmente attratta dai movimenti populisti di destra. I membri dei sindacati degli Stati Uniti hanno assistito alla chiusura di una fabbrica dopo l’altra, per vederle riaprire in Solvenia, Tailandia o Messico. Non stupisce che vedano, come risultato dell’apertura al commercio internazionale, a fronte dei vantaggi per manager e azionisti, e di un miglioramento del tenore di vita nei paesi emergenti, un forte peggioramento del tenore di vita dei lavoratori americani. E non dovremmo stupirci se considerassero l’intellighenzia di sinistra come schierata a fianco dei manager e gli azionisti – a condividerne gli stessi interessi di classe – dal momento che noi intellettuali, per lo più membri dell’accademia, siamo relativamente protetti, almeno nel breve periodo, dagli effetti della globalizzazione. A peggiorare le cose, è il fatto che spesso sembriamo più interessati ai destini dei lavoratori dei paesi meno sviluppati che a quello dei nostri concittadini.

Molti studiosi di politiche socioeconomiche hanno messo in guardia sul rischio che le vecchie democrazie dei paesi industrializzati stiano entrando in una fase simile a quella di Weimar, nella quale i movimenti populisti potrebbero rovesciare i governi costituzionali. Edward Luttwak, per esempio, ha suggerito che il fascismo possa essere il futuro dell’America. L’argomento centrale del suo libro The Endangered American Dream è che i membri dei sindacati e i lavoratori non organizzati a bassa qualifica presto o tardi si accorgeranno che il loro governo non prova neppure a impedire che i loro salari si riducano o i loro posti di lavoro vengano trasferiti all’estero. Nello stesso momento, si accorgeranno che le classi medie urbane, esse stesse impaurite dell’arretramento delle proprie condizioni, non accetteranno di pagare le imposte necessarie a finanziare la spesa sociale a vantaggio di altri.

A quel punto, qualcosa si romperà. L’elettorato non urbano deciderà che il sistema ha fallito e comincerà a guardarsi intorno alla ricerca di un uomo forte da votare, qualcuno che, una volta eletto, dia loro la certezza che non siano più gli orgogliosi burocrati, gli scaltri avvocati, gli operatori finanziari superpagati, e i professori post-moderni a condurre le danze. (…) Nel 1932, la maggior parte delle previsioni su quel che sarebbe successo se Hindenburg avesse nominato Hitler cancelliere si rivelarono troppo ottimistiche.

Una cosa che molto probabilmente accadrebbe sarebbe la cancellazione di tutti i passi avanti fatti nei quarant’anni precedenti dalle minoranze di colore e dagli omosessuali. Gli scherzi pesanti verso le donne torneranno di moda, sentiremo di nuovo parole come “negro” e “sporco ebreo” sul posto di lavoro. (…) Una volta che il mio uomo forte immaginario avrà preso il potere, farà rapidamente pace con la classe internazionale dei super-ricchi, così come Hitler fece con gli industriali tedeschi. Invocherà il ricordo glorioso della Guerra del Golfo per imbarcarsi in avventure militari che daranno prosperità a breve termine. Ma sarà un disastro per il Paese e per il mondo. La gente si chiederà perché ci sia stata così poca resistenza alla sua evitabile ascesa. Dov’era la sinistra americana? – ci si chiederà. Perché sono stati solo conservatori come Buchanan a parlare ai lavoratori delle conseguenze della globalizzazione? Perché la sinistra non è riuscita a intercettare la rabbia montante dei diseredati?

Nello stesso saggio, XXX fa una critica serrata a quella che chiama la “sinistra culturale” del suo paese che, dichiarando con troppa fretta la fine degli stati nazionali, ha rinunciato ad ogni possibilità di operare sulle sole leve di politica disponibili

La sinistra culturale sembra spesso convinta che lo stato nazionale sia qualcosa di obsoleto, e che pertanto non abbia senso tentare di resuscitare le politiche nazionali. Il problema è che lo stato nazionale è, e sarà anche nel futuro per noi prevedibile, la sola entità capace di fare la differenza (…). Non procura nessuna consolazione a coloro che rischiano di finire in miseria per effetto della globalizzazione sentirsi dire che, essendo gli stati nazionali ormai irrilevanti, dobbiamo trovare qualcosa che li sostituisca. I super-ricchi internazionali non pensano che serva alcun sostituto, ed è probabile che siano loro a prevalere. Bill Reading aveva ragione a dire che “lo stato nazionale [ha cessato] di essere l’unità elementare del capitalismo”, ma esso rimane l’entità che prende le decisioni in merito ai benefici sociali, e quindi la giustizia sociale. L’attuale abitudine della sinistra di guardare lontano oltre la realtà nazionale verso un’entità politica globale è tanto inutile quanto lo era la fede nella filosofia della storia di Marx, della quale è diventata un sostituto. Ma entrambe sono irrilevanti rispetto alla questione di evitare il riemergere di caste ereditarie, o evitare che i populisti di destra traggano vantaggio del risentimento che ne consegue.


Il testo è tratto dal libro Achieving our country, del filosofo americano Richard Rorty. Si basa su un ciclo di lezioni da lui tenute all’Università di Stanford tra il 1996 e il 1997.