L’esperienza insegna che non è buona norma commentare provvedimenti fiscali a caldo, prima di conoscere i dettagli, perché spesso i dettagli sono tutto. È dunque con tutte le necessarie cautele che arrischio qualche considerazione preliminare sul primo annunciato provvedimento fiscale del governo Lega-M5S, la cosiddetta flat tax per le imprese.

Nella giornata di ieri è stato il senatore-economista Alberto Bagnai ad annunciare che la flat tax prevista dal contratto di governo sarà inizialmente applicata solo alle imprese. La dichiarazione ha suscitato l’immediata reazione di molti (anche la mia), che hanno fatto notare che le imposte per le imprese sono già “flat”, cioè proporzionali. Una precisazione dello stesso Bagnai (via twitter) ha confermato come il termine flat tax, nel dibattito corrente italiano, si sia ormai discostato dal suo significato tecnico di imposta con aliquota unica, per indicare più genericamente l’abbassamento delle aliquote fiscali. Del resto, anche nel contratto di governo, si parla di una flat tax con due aliquote, che a ben vedere è una contraddizione in termini. E sia. Non è la prima volta che il dibattito politico si prende di queste licenze; vorrà dire che la precisione terminologica ce la terremo per i nostri seminari.

Ma veniamo al possibile contenuto della riforma annunciata. Come è noto, il reddito di impresa attualmente è sottoposto, a seconda della forma giuridica dell’impresa stessa, a Ires (l’imposta sul reddito delle società, che si applica alle società di capitali) oppure a Irpef (per le società di persone e imprese individuali). L’Ires è un’imposta proporzionale, con aliquota portata recentemente al 24% (era al 27,5%, ed è in calo fin dagli anni Novanta, quando l’Irpeg, la progenitrice dell’Ires, aveva raggiunto il 37%). Il progetto del nuovo governo sembra essere dunque quello di proseguire sulla strada della riduzione della pressione fiscale sul reddito di impresa, scendendo presumibilmente fino al 20%, che è l’aliquota massima di imposta sul reddito personale prevista nel contratto di governo.

corporate tax rate

Il grafico mostra del resto che una riduzione generalizzata dell’aliquota di imposta sui redditi societari è in corso da anni pressoché ovunque, come effetto dalla concorrenza fiscale tra paesi, che cercano così di attrarre imprese e capitali dall’estero (nonché di scoraggiarne la fuga verso altri lidi dove l’imposta è ancora più bassa). Prima di giungere a conclusioni sugli effetti equitativi di tale tendenza, assecondata dal nuovo governo, è opportuno chiarire alcuni aspetti della tassazione societaria che spesso sfuggono ad un dibattito superficiale.

Il primo punto da chiarire è che le ragioni dell’esistenza stessa di una tassazione autonoma dei profitti di impresa non sono affatto ovvie: si potrebbe infatti argomentare che in ultima istanza a pagare le imposte debbano essere le persone, cioè in questo caso i soci, per cui l’imposta gravante su una società può essere al più considerata una forma surrogata di tassazione del reddito dei soci, una sorta di acconto. A conferma di questa tesi il fatto che, per lungo tempo, un meccanismo di credito di imposta restituiva ai soci l’imposta pagata dalla società sugli utili nel momento in cui questi erano distribuiti sotto forma di dividendi e quindi assoggettati a Irpef.

Alla fine, ciò che rileva, sia sotto il profilo dell’equità che degli incentivi a investire in un’attività di impresa, è l’utile conseguito al netto di tutte le imposte, sia quelle pagate dalla società che quelle gravanti sugli utili quando questi sono distribuiti ai soci. Dunque, un apprezzamento dell’entità dell’imposta sui profitti dovrà tenere conto insieme della tassazione in capo alla società e della tassazione in capo al socio. Ciò che è importante è allora considerare se, alla riduzione della prima imposta, seguirà un aumento dell’imposta in sede di distribuzione degli utili. Finora così è stato, e ci auguriamo che il nuovo governo segua questa strada, che peraltro ha più a che vedere con la necessaria coerenza del sistema che con una mera considerazione equitativa.

Quale la motivazione di spostare la tassazione dalla società al socio? Come dicevamo, una prima ragione è legata alla concorrenza fiscale: la tassazione degli utili distribuiti colpisce i soli soci residenti in Italia, mentre i soci stranieri dalla riduzione dell’aliquota societaria italiana trarrebbero un vantaggio netto. Premiando questi ultimi, lo Stato italiano perderebbe gettito, ma aumenterebbe l’attrattività degli investimenti diretti dall’estero. Contemporaneamente, l’aumento dell’imposta sugli utili distribuiti potrebbe ridurre l’incentivo fiscale a delocalizzare la produzione all’estero.

Un’altra giustificazione spesso avanzata a favore della riduzione dell’aliquota societaria è l’attenuazione dell’effetto disincentivante che essa esercita sugli investimenti effettuati dalle imprese con risorse proprie, (laddove il ricorso al debito gode del vantaggio dovuto alla deducibilità degli interessi passivi dal reddito di impresa). Tale ragionamento non vale tuttavia per il nostro Paese, dove l’introduzione del meccanismo dell’ACE nel 2011 ha nei fatti azzerato al margine il peso dell’imposta societaria sugli investimenti.

Seguendo il nostro ragionamento, chi legge potrebbe a questo punto chiedersi perché a questo punto non azzerare del tutto l’imposta societaria, e non caricare interamente il peso delle imposte sul socio, al momento della distribuzione degli utili. Vi sono due obiezioni principali a questa soluzione, che valgono in parte anche come obiezioni rispetto all’opzione più limitata di riduzione dell’aliquota: la prima è che l’effetto immediato di spostare la tassazione dalla società (nel momento della formazione degli utili) al socio (nel momento della percezione degli stessi) comporta una perdita immediata di gettito, che verrebbe compensata solo successivamente (la distribuzione degli utili è ovviamente successiva a quella della loro realizzazione nell’ambito dell’impresa). La seconda obiezione è che l’assenza di imposte sull’impresa crea un incentivo a forme di elusione da parte dei soci, che possono trarre vantaggio dall’utilizzo dei beni dell’impresa per finalità di consumo privato (si pensi all’utilizzo dell’auto aziendale ecc.); tale vantaggio già esiste, come esistono norme che cercano di limitare gli abusi, ma indubbiamente l’eliminazione dell’imposta societaria avrebbe l’effetto di rendere tali comportamenti ancora più attraenti per chi fosse in grado di aggirare i paletti posti dal legislatore.

Finora abbiamo fatto riferimento all’Ires, imposta sulle società di capitali, ma nel progetto la “flat tax” si estenderebbe anche alle imprese individuali e alle società di persone, il cui reddito è assoggettato a Irpef progressiva in capo all’imprenditore o ai soci. Per la verità, nemmeno questa è una novità, visto che il governo Renzi ha riformato la materia (approvando un progetto già in gestazione da diversi anni) avvicinando il trattamento delle imprese più piccole a quello delle società di capitali. Ci riferiamo all’Iri (Imposta sul reddito imprenditoriale), un’imposta sostitutiva, applicata in via opzionale, che consente all’imprenditore di assoggettare la parte di utili che rimane nell’impresa a un’aliquota proporzionale pari a quella dell’Ires. Come l’Ires, l’Iri agisce dunque come una sorta di “acconto”, applicato al momento della percezione di un reddito da parte dell’impresa, dell’Irpef che l’imprenditore o il socio saranno comunque tenuti a pagare al momento del trasferimento degli utili nella loro disponibilità. Cruciale nella sua applicazione è dunque la distinzione tra patrimonio della società/impresa e patrimonio del socio/imprenditore.

L’introduzione dell’Iri va nella direzione di uniformare il trattamento fiscale delle imprese a prescindere dalla forma giuridica assunta (es. società di capitali o di persone), e ci si aspetta che porti dunque a benefici in termini di eliminazione di incentivi perversi a scegliere una soluzione giuridica o l’altra per mere finalità fiscali. Il dubbio semmai è se sia così attraente, per un’impresa molto piccola, aumentare il carico di adempimenti e la complessità della gestione derivante dalla separazione tra patrimonio sociale e patrimonio individuale. Ma finché la soluzione indicata resta opzionale, c’è da credere che saranno gli imprenditori stessi a effettuare questo calcolo di convenienza.

Volendo riassumere queste brevi considerazioni, possiamo dunque concludere che l’introduzione della flat tax per le imprese non rappresenta di per sé un regalo ai “ricchi” (lo è molto di più la riduzione delle aliquote dell’imposta personale prevista dal contratto di governo). Se accompagnata da un (a nostro avviso necessario) aggiustamento dell’imposta gravante sugli utili distribuiti, l’effetto in termini di equità di tale provvedimento sarebbe neutrale. Restano i due dubbi indicati: il rischio di incentivare forme di elusione tramite la confusione del patrimonio dell’impresa con quello del socio/imprenditore e la prevedibile caduta di gettito. Quest’ultimo effetto non è trascurabile, considerando che il gettito Ires complessivo negli ultimi anni si è aggirato sui 35 miliardi e una riduzione dell’aliquota dal 24 al 20% comporta un taglio lineare di 1/6. Da questa punto di vista, c’è da domandarci se un provvedimento del genere, nell’ottica di un rilancio della domanda, sia veramente una priorità. La riduzione delle imposte sui profitti è una tipica politica “dal lato offerta”. Soprattutto rispetto all’obiettivo di incentivare gli investimenti delle imprese, ben più efficace sarebbe operare per il rilancio della domanda interna attraverso consumi e investimenti pubblici e e privati.

In chiusura è d’obbligo tuttavia esprimere un’altra preoccupazione. Nelle intenzioni dei proponenti, il provvedimento che abbiamo commentato si inserirebbe in una più generale drastica riduzione delle aliquote Irpef; a questo riguardo, c’è da chiedersi come avverrebbe il coordinamento tra la nuova imposta sul reddito di impresa e le imposte sul reddito personale. Le considerazioni sopra sviluppate si basano infatti sul presupposto, valido pressoché per tutti i sistemi fiscali avanzati, che l’imposta progressiva sul reddito abbia un’aliquota più alta di quella applicata al reddito di impresa (che della prima rappresenta, come abbiamo detto, una sorta di acconto). Ma, stando all’annunciato progetto di flat tax, anche l’imposta sul reddito avrebbe a regime un’aliquota del 20 o del 15%. Ritenendo improbabile che questo governo punti ad un sistema fiscale che tassa il reddito di impresa in misura maggiore degli altri redditi, ci chiediamo se l’adozione della flat tax sui redditi delle persone fisiche si porterà dietro anche un azzeramento delle imposte sui dividendi e sui capital gain, sia quelli da partecipazioni qualificate (attualmente inclusi per una quota in Irpef), sia quelli assoggettati a imposta sostitutiva del 26%. È questa l’intenzione del governo? Se sì, la caduta di gettito rischia di essere assai superiore a quanto previsto; se no, ci troveremmo di fronte a esiti assai curiosi sul piano della coerenza complessiva del sistema fiscale. Né il contratto di governo né le prime esternazioni di questi giorni aiutano a comprendere quale sia il disegno complessivo cui si ispira la riforma annunciata dal nuovo governo; non abbiamo alcuna simpatia per il progetto di introduzione della flat tax, ma la cosa peggiore sarebbe scoprire sulla nostra pelle che i nuovi legislatori non sono consapevoli della complessità dell’obiettivo che si sono dati.